Roma criminale, faide, sgarri e cocaina: tornano delle pistole come negli anni bui della Magliana

Roma criminale, faide, sgarri e cocaina: tornano delle pistole come negli anni bui della Magliana
di Alessia Marani
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Mercoledì 1 Marzo 2017, 07:55 - Ultimo aggiornamento: 2 Marzo, 08:25

A Roma tornano a parlare le pistole come negli anni bui della Magliana. È finita la tregua tra bande? Da San Basilio a Tor Bella Monaca basta uno screzio, una piccola divergenza all'interno di un gruppo, per premere il grilletto come se niente fosse. Il metodo? A raccontare ai magistrati il sistema per mantenere gli equilibri, gli stessi criminali pentiti e usciti dal giro. «Quindi dovevate intervenire sul marocchino?». «E certo!». «In che termini?». «In termini soliti: sparando». Non ha dubbi il pentito ndranghetista Gianni Cretarola, già in carcere per l'omicidio di Vincenzo Femia il referente a Roma dei Nirta di San Luca, quando si tratta di descrivere al pm Francesco Minisci l'agguato teso ad Ahmed Chati nel novembre 2012 sul litorale. I conti nell'ambiente vanno regolati sparando. Una «botta» non si nega a nessuno. E anche quello che all'epoca sembrava un avvertimento tra piccoli pregiudicati confinato nel degradato complesso residenziale delle Salzare di Ardea, si scopre celare l'intercessione delle cosche trapiantate a Roma. Che per quell'agguato portarono sul posto una calibro 32, uno scambio di favori con un sodale siciliano. I calabresi sono in carcere, fermati dopo le operazioni Buena Hora 2 del Gico della Finanza di Roma, Nuvola del Gico di Milano e Codice San Luca della Squadra Mobile capitolina; sono stati fermati. Ma le pistole non smettono di sparare.

LA SCIA DI SANGUE
Dietro a ogni sparo c'è una storia diversa: lo sgarro a un capo piazza della droga, un debito o chissà quale teorema criminale. A luglio in 37 finirono alla sbarra dopo l'omicidio di Salvatore D'Agostino, il boss di Giardinetti rivale del clan Cordaro che spadroneggiava a Tor Bella Monaca. Per dirla con le parole del procuratore capo Giuseppe Pignatone «Roma non è terra di mafia, ma delle mafie», perché ogni clan, locale o importato, trova un settore da addentare, meglio ai piani alti del potere e del riciclaggio, lasciando ai pesci più piccoli, alle gang di quartiere gli scontri di strada per dividersi, si fa per dire, le briciole. Gli ultimi episodi domenica a San Basilio e sabato davanti a una discoteca dell'Eur: 11 colpi sparati da un pregiudicato di rango (arrestato) contro un gruppo di ragazzi, 4 i feriti. Era impazzito perché l'avevano messo alla porta. Un mistero l'agguato del 17 febbraio a un 28enne di Tor Lupara sempre a San Basilio. Due sicari su una moto crivellano lo sportello della sua Fiat 500, ferendolo a un gluteo. Solito modus operandi a dicembre: caschi integrali sulla testa, in due su uno scooter aprono il fuoco contro un 22enne di Tor Bella Monaca all'uscita di un parcheggio al Collatino. L'elenco degli avvertimenti a mano armata è lungo e serrato. Tra il 2015 e il 2016 si consumano le faide del Tufello e di San Basilio. La droga sembra il comune denominatore. Il giorno di Pasqua 2016 viene centrato per errore un giovane pugile, gravemente ferito da tre colpi di pistola. L'autore si dà alla fuga in Spagna, i poliziotti lo sanno, aspettano un suo passo falso (tornerà a Roma per il compleanno della figlia) e lo portano in carcere. Tre mesi più tardi la polizia sorprende uno spacciatore a sparare nei cortili delle ex case popolari via Tonale. Non distante, il piombo parla di nuovo nella Scampia romana, a San Basilio. Una sera di aprile di due anni fa, in tre vengono gambizzati sul muretto vicino al mercato. Sempre in due, sempre in moto. Perché come spiega il pentito al pm «la moto è più facilmente divincolabile e scappabile e la puoi gettare mentre...». Il 22 luglio dello stesso anno un pregiudicato italiano salva la pelle per miracolo in un agguato in via Fabriano.
Neanche dietro alla gambizzazione di Teodoro B., nato a Catanzaro, titolare con il fratello di una carrozzeria al Prenestino, avvenuta il 29 ottobre 2012, si ipotizzava l'ombra delle cosche. Un episodio apparentemente marginale: la vittima non aveva conti in sospeso con la giustizia, nulla che potesse fare presagire a uno scontro tra bande. Agli investigatori raccontò solo di avere visto due tizi su uno scooter Honda Blu che hanno puntato l'arma ed esploso tre colpi. «Perché hanno sparato? Non lo so». Anni dopo è ancora Cretarola a scoprire un pentolone fatto di vecchi conti in sospeso trascinati a suon di piombo dalla Calabria fin nella Capitale.

DA TORTELLINO IN POI
É lui che custodisce le armi insieme con Massimiliano Sestito, nipote di Francesco Sestito, originario di Chiaravalle (Catanzaro) in un box di Torrevecchia. Ed è Massimiliano che per conto dello zio mette in atto una strategia perché i due fratelli facciano recapitare un messaggio a un loro parente, sparito dalla Calabria a Roma dopo avere lasciato un debito d'usura insoluto con zi' Francesco di 30 milioni di vecchie lire. Individuata la carrozzeria, i fratelli dapprima prendono le distanze dal parente ma poi diventano «maleducati». Per commettere il raid serve un mezzo rubato. Il clan lo trova «da certi zingari (...) a Torrevecchia (...) c'è un grande campo nomadi e là eravamo andati anche altre volte a reperire gli scooter per altre cose...». Insomma, se è vero che esiste una legge non scritta nella malavita organizzata per cui «a Roma non si disturba» e «non s'ammazza se non strettamente necessario» per non rovinare affari ben più grandi che investono le sfere del potere e del riciclaggio, capita che banditi di borgata e criminali di razza convergano su interessi comuni. Strettamente «necessarie» sono apparse le morti di Femia, ostacolo per i clan emergenti, e quello di Tortellino al secolo Giovanni Valentini, ucciso nel 2005 a Porta Metronia. Pare che avesse tentato di abbassare il prezzo della cocaina facendo storcere il naso alla Camorra.