L'accoglienza selettiva dell'antica Roma

di Francesco Rutelli
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Martedì 9 Ottobre 2018, 08:25
Caro Direttore, seduti in un bar, nella metro, a tavola, fatalmente si parla di soldi.
Oppure di immigrati. Questi due argomenti hanno a Roma, sul colle del Campidoglio, da ben più di duemila anni, una sorgente delle stesse parole che adoperiamo oggi. Tra le parole più universali: moneta, tradotta in ogni parte del mondo dal latino (money, monnaie, munzen, moneda) origina dalla breve collina, appena una cinquantina di metri di altitudine, che ha segnato la vita della città e del mondo (Urbis et Orbis, come cantò Ovidio). E come ignorare che la parola asilo la tutela che si deve riconoscere, oppure no, a profughi e migranti viene usata con riferimento ad una sella, un avvallamento l'asylum - che si trova a pochi passi di distanza, sempre sul Colle capitolino?

Il Campidoglio diviso tra Capitolium ed arx, la rocca, con in mezzo proprio l'asylum ha conosciuto, nell'arco di quasi 3.000 anni, molte trasformazioni: dall'età antica, in cui guardava verso il Foro, al taglio del collegamento col Quirinale (opera di Traiano), all'abbandono che lo ridusse a pascolo - Monte Caprino - alle demolizioni per la costruzione dell'Altare della Patria. Ma cerchiamo di capire perché le monete che ognuno ha in tasca traggano questo nome dal Colle capitolino, anche se ciò sfugge ai miliardi di umani che ogni giorno pronunciano questa parola.
È nel 345 avanti Cristo, durante la guerra con gli Aurunci, che Furio Camillo intitola a Giunone Moneta un tempio sull'Arce. Moneta, ovvero - dal verbo moneo - ammonitrice, per i saggi avvertimenti di cui era capace, a beneficio dei nostri antenati bellicosi. Accanto al tempio si vedono ancora nei giardinetti dell'Aracoeli pezzi di muratura, in tufo di Fidene, ad esso attribuiti era la primitiva Zecca della Roma repubblicana, dove, appunto, si batteva moneta. A pochi metri, era l'Aerarium (avete mai sentito qualcuno, oggi, maledire le tasse versate all'Erario?), il deposito dei lingotti e delle monete coniate dalla stessa Zecca. Se la terminologia, secondo i linguisti, potrebbe essere prestata dalla tradizione commerciale fenicia, nell'etimologia popolare come mi ha ricordato il filologo della Sapienza Andrea Cucchiarelli il collegamento tra la moneta e Giunone Moneta risale ad una condivisa sensibilità tra i romani antichi.

Nello stesso brano di città, a pochi metri, era l'asylum. Secondo la tradizione, fu Romolo ad istituire questo luogo sacro, in cui chiunque volesse trasferirsi a Roma (che fosse straniero; bandito; oppure desideroso, supplice) otteneva protezione. Ovvero, asilo. La parola è di origine greca, indicando un luogo ove c'è divieto di cattura: il luogo sacro nei templi che era proibito saccheggiare, salvo incorrere nelle maledizioni e nella vendetta degli dei. È Roma a definire con questo nome un luogo cruciale del Campidoglio: inter duos lucos, secondo Tito Livio, ovvero uno spazio recintato tra due boschi. Già, perché 2800 anni fa il colle era ricoperto come le altre colline romane di boschi: non per nulla, la madre dei Gemelli ebbe nome Rea Silvia, in riferimento alle selve delle origini. Io non dimentico, dei miei anni in Campidoglio, scavi, scoperte e restauri condotti da Eugenio La Rocca e Anna Mura Sommella tra il Tabularium - sotto il Palazzo Senatorio, dove hanno sede l'ufficio del Sindaco e il Consiglio Comunale e l'asylum (per il quale il punto di rifugio era presumibilmente il Tempio di Veiove, i cui resti sono rilevanti e ben visibili). Se il concetto di asilo ricorre in diverse parti del mondo antico, solo Roma attribuisce la sua istituzione al fondatore, Romolo; e il grecismo del nome asylon solo a Roma assume un carattere fondativo imprescindibile, e concorre ad un lessico che noi contemporanei definiremmo diritto internazionale.

Qui si apre il tema di grande attualità, di cui come per le monete - tutti discutiamo: i Romani intendevano spalancare le porte ai migranti del tempo, concedendo indiscriminata protezione a «un'accozzaglia di gente, senza distinzione alcuna tra liberi e schiavi, avida di cose nuove» (come scrive Livio)? Sì, e no. Ovvero: l'accoglienza dello straniero era un fattore indispensabile per una comunità ristretta nei numeri, ma dall'inizio consapevole di un destino speciale. E non era un'apertura occasionale, ma vera integrazione: tutti i Re di Roma furono stranieri. Latini, Sabini, Greco-Etruschi. Tuttavia, era vincolata a regole severe, anche crudeli. Sin dall'inizio, il disordinato dualismo per il potere viene soppresso: Remo viene ucciso, perché ha oltrepassato il confine. L'autorità della Legge e la forza delle regole, sin dalla Roma primigenia, si reggono su istituzioni, esercito, pluralismo religioso; l'integrazione funziona solo in base a regole severe. Alla fine dell'Impero, e di una storia di complessità, durata, influenza impareggiabili, Rutilio Namaziano potrà così esaltare Roma: «Hai fatto di genti diverse una sola Patria».
 
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