Beffa in Mondovisione/ La resa dei ciclisti all’incuria Capitale

di Mario Ajello
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Lunedì 28 Maggio 2018, 00:08
Neppure la minaccia dei missili iraniani. Nemmeno l’Intifada in corso.

E nulla ha potuto l’intero conflitto israelo-palestinese, con i suoi esplosivi addentellati in tutto il Medio Oriente, di fronte al Giro d’Italia. Che è partito - bella idea - senza intoppi e avvallamenti da Gerusalemme. Ma siccome il vero teatro di guerra è qui, le strade bombardate sono nell’Urbe, le voragini le abbiamo noi e la grande mina che fa saltare l’asfalto è made in Rome, s’è rivelata impossibile la pace ciclistica. E i corridori sono dovuti scendere dalle bici a mani alzate e rinunciare, per troppi sobbalzi, per troppi fastidi, e che male l’osso sacro, oddio la cervicale, all’ultimo giro per le strade di Roma dicendo: «Ci arrendiamo!». L’invincibile potenza della Grande Buca di Roma - una? mille! - ha battuto il ciclismo, ha inghiottito un grande evento, ha ridicolizzato la Capitale. E siamo alla riprova che quando l’incuria e l’indifferenza amministrativa durano troppo a lungo - non avevano inventato un Piano Buche? - si finisce così e per di più in mondovisione. 

Se fossero ancora vivi Fruttero&Lucentini, che amavano il ciclismo, avrebbero potuto aggiungere adesso un nuovo capitolo al loro grande classico, intitolato «La prevalenza del cretino». In questo caso, senza offesa, il cretino è tutto l’insieme burocratico-amministrativo che, pur sapendo da tempo che il Giro sarebbe passato da Roma, non si è preoccupato di risistemare le strade e ha prodotto la Prevalenza della buca. 

Magari non crede che le buche esistano. Non sa che ciclisti e motociclisti ormai ci vivono dentro. Trova attraente che Roma sia diventata un baratro con la città intorno. O forse deve aver pensato, questa controfigura collettiva del protagonista del libro di F&L, che il Giro viaggia sulle funivie che aveva immaginato il Campidoglio; o procede a cavacecio delle pecore chiamate di recente in soccorso per tosare il verde pubblico; o viene trasportato lungo le bionde acque del Tevere come accadde alla culla di Romolo e Remo; o è popolato di persone più pazienti dei romani - quanto si lagnano ‘sti cittadini per qualche piccolo foro stradale, non è divertente come stare sulle montagne russe? - e invece no: i campioni delle due ruote hanno dato una lezione di civismo a tutti. Dicendo: o rifate l’asfalto o in bici ci andate voi, a vostro rischio e pericolo. 

Siccome qui è tutto emergenza, fino all’ultimo momento utile gli operai mettevano toppe, non riuscendo a finire l’opera. Sarebbe bastato cominciare prima. Così che la doppia prevalenza, del cretino e della buca, non rovinasse quella che poteva essere una festa e lo è stata solo a metà. Attirando su Roma le ironie da tutte le parti, comprese quelle dei lumbard come l’ex ministro Calderoli: «Nessuno dei corridori della carovana rosa s’è mai lamentato inerpicandosi sulle mulattiere del passo alpino del Colle delle Finestre, ma a Roma hanno dovuto desistere». 
Leonardo Sciascia diceva: «Non esistono più i cretini di una volta» (sono tutti diventati sociologi, avrebbe forse voluto aggiungere). Ma non esistono più neppure le buche di una volta. I campioni del Giro pensavano, probabilmente, di doversela vedere al massimo con quelle bucone larghe e grasse che c’erano prima del big bang, poche, ben visibili, accoglienti, quasi piacevoli da frequentare come un grembo materno - un po’ simili alla Luisona, la pasta antica e secca, statuaria e veneranda, raccontata da Stefano Benni nel suo libro migliore, «Bar sport» - e viceversa si sono trovati davanti alla brutta sorpresa di dover sobbalzare su una grattugia senza fine e su una pista sgangherata di ciclocross.

E così, non sono bastate le toppe a salvare la tappa. E la sciatteria più l’improvvisazione si dividono la vittoria della giornata insieme al campione anglo-keniota Froome. Il più abile a saltare le buche nelle quali, proprio intorno alla piazza del Quirinale dove passava la gara, sono sprofondati - politicamente - il premier mancato Giuseppe Conte e il ministro non diventato ministro Paolo Savona. E per fortuna che la vicenda del Giro è coincisa con la più grave crisi istituzionale italiana da tanto tempo in qua, sennò il clamore mediatico della resa dei ciclisti sarebbe stato ancora più enorme. 

Si potrebbe ridere di tutto questo. Ma sarebbe sbagliato. Goffredo Parise sosteneva che «Roma non ha mai fatto alcun danno a nessuno». Ma stavolta, più di altre volte, ha fatto danno a se stessa. 

 
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