Placanica risponde a Pignatone:
«Processi mediatici e ruolo
dei giudici: il caso di Roma»

Placanica risponde a Pignatone: «Processi mediatici e ruolo dei giudici: il caso di Roma»
di Cesare Placanica*
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Giovedì 2 Novembre 2017, 08:39 - Ultimo aggiornamento: 3 Novembre, 09:06

Gentile Direttore, l'altro ieri, insieme con tanti altri colleghi, sono stato alla Camera dei Deputati. Ero con tanti altri appartenenti all'Unione delle Camere Penali Italiane, l'associazione degli avvocati penalisti. Abbiamo depositato la richiesta, di oltre 60 mila cittadini italiani, di separare la carriera dei Giudici da quella dei Pubblici Ministeri. La lettera di ieri al Suo giornale del Procuratore Pignatone mi ha confermato la convinzione di non avere sprecato un pomeriggio prefestivo. E cerco di spiegare perché.

Sostiene il Capo della Procura di Roma che l'annullamento della Cassazione di una sentenza resa dalla Corte di Appello, che aveva assolto dal reato di mafia alcuni appartenenti al presunto clan Fasciani di Ostia, abbia fatto rivivere la condanna per associazione mafiosa. E da qui la riprova che a Roma ci sia la mafia, anche in versione autoctona. Ora, intanto mi permetto di mettere in discussione, come direste voi giornalisti, il primo dato di questa notizia: il fatto. La Cassazione pochi giorni fa ha sì annullato la sentenza di assoluzione, ma ha disposto, al contempo, un nuovo giudizio avanti alla Corte di Appello di Roma. Che potrebbe, e le assicuro Direttore, non solo in teoria ma anche in pratica, confermare il giudizio di insussistenza dell'associazione mafiosa.

Fermo restando che la valutazione, per così dire sociale, del fenomeno mafia non è un problema che possa riguardare le aule di giustizia. Nei processi si deve accertare, volta per volta, con la massima serenità, senza pregiudizi e con grande accuratezza se un determinato fatto storico sia accaduto. Poi se lo abbiano commesso gli imputati. E, soprattutto, se quel fatto, corrisponda, perfettamente, ad una ipotesi di reato. Tenendo presente che nel diritto penale sono tassativamente vietate interpretazioni estensive, anche se dovute a motivi sociologici. E questo perché solo negli stati totalitari si punisce un comportamento che non sia vietato esplicitamente e in modo chiaro dalla legge. Accorgimenti e cautele che dovrebbero essere considerati particolarmente cogenti soprattutto in caso di reati associativi. Che per loro natura prestano il fianco al pericolo di arbitrio nell'individuazione della condotta da sanzionare.

Il motivo che mi ha spinto a scrivere, però, non riguarda certo questo aspetto tecnico della interpretazione di una sentenza. L'uscita pubblica del dottor Pignatone (in verità, lo riconosco, personalmente parco di esternazioni), pone difatti un problema generale e diffuso: quello della propaganda mediatica del proprio punto di vista, costantemente posta in essere da quasi tutti gli uffici inquirenti italiani. Il cui effetto distorsivo si produce non solo nel contesto sociale, ma finanche all'interno del processo.

È un problema che mi pongo in ottima e autorevole compagnia. La maggior parte dei cittadini non sa, per esempio, che nella sua relazione letta avanti al Capo dello Stato, nel corso della cerimonia di inaugurazione dell'ultimo anno giudiziario, il Primo Magistrato d'Italia, il Presidente della Corte di Cassazione, ha dedicato un intero capitolo alle «distorsioni dei processo mediatico». In cui, con grande coraggio, si denunciava il problema del «pre-giudizio costruito nel processo mediatico parallelo». Segnalandosi la necessità di riattrarre la figura del pubblico ministero all'interno della cultura giurisdizionale «da cui, di fatto, è visibile in alcuni casi, il progressivo distacco, per una sorta di autoreferenzialità, anche nei rapporti con la narrazione mediatica».

Aggiungo io, che quel «pre-giudizio», non influenza solo l'opinione pubblica, ma ha certamente un effetto endoprocessuale rispetto ai giudici del processo. A cui sarà richiesto un surplus di coraggio per contrastare con una loro sentenza un dato ormai acquisito al contesto sociale. Sapendo, che buona parte dei commentatori, finiranno per accusarli, nella migliore delle ipotesi di essere giudici inadeguati a quel tipo di processi (e questo è stato per esempio il giudizio pubblico dell'attuale Presidente della Commissione Antimafia rispetto ai Giudici di mafia-capitale), mentre i più militanti li descriveranno quasi come fiancheggiatori dei mafiosi. O Lei immagina, signor Direttore, che l'uscita pubblica dell'autorevolissimo Procuratore della Repubblica di Roma possa non avere alcun effetto sui Giudici che dovranno prendere di nuovo in considerazione il problema della mafiosità del presunto Clan Fasciani?

Torno allora all'incipit di queste mie poche righe. Cessiamo un'ipocrisia tecnica, di sistema e soprattutto culturale. Consentiamo a chi sostiene l'accusa di potere liberamente esprimere il suo punto di vista partigiano, dando però al contempo piena autonomia al Giudice, separandolo dall'influenza del rapporto di colleganza con il pubblico ministero. Realizziamo veramente il dettato della Costituzione più bella del mondo (perché se lo è, dovrebbe esserlo in ogni sua parte), che all'articolo 111 descrive il Giudice come «terzo e imparziale» tutore della parità delle parti processuali. E liberiamo il P.M. da questa veste di para- giudice senza il timore di essere «bollati come nemici dell'indipendenza del magistrato» (e qui il virgolettato è di un certo Giovanni Falcone).
* Presidente della Camera Penale di Roma