Occupazioni, l'elogio del sottosegretario e lo sfascio di un paese

Occupazioni, l'elogio del sottosegretario e lo sfascio di un paese
di Giorgio Israel
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Martedì 2 Dicembre 2014, 11:43 - Ultimo aggiornamento: 11:44
Il nuovo sottosegretario all’Istruzione Davide Faraone entra nel dibattito sulle occupazioni scolastiche e lo fa senza mezzi termini. Non nasconde quanto gli piacciano le occupazioni e quanto detesti i «ragazzi seduti e la cattedra di fronte». Fosse per lui istituzionalizzerebbe le occupazioni ma ciò rischierebbe di svilirne il valore.



Eleva un peana alle dormite in sacchi a pelo nelle aule che finalmente diventavano calde e umane e vedevano il consumarsi di amori e incontri con l’anima gemella. Concede - bontà sua - che scuola è didattica e studio ma, ha ricavato dalle sue esperienze di occupante la convinzione che le occupazioni sono una palestra del far politica e aggiunge che tanti hanno scoperto la politica e la passione civile in quelle esperienze, che tanti sono diventati leader di un’azienda dopo essere stati leader di un’occupazione studentesca. Insomma, è anche in quelle fucine che «si seleziona la classe dirigente».



Che dire? Ha ragione. Ha perfettamente ragione, almeno sul piano storico. E ciò è ancor più chiaro a chi ha più anni di lui e conosce il lunghissimo percorso che ci ha condotto dalle mitologie sessantottine a queste pratiche che si ripropongono in modo estenuante, sostenute da chi ancora è legato a quelle mitologie e le ha accuratamente trasmesse a figli e nipoti. Ha ragione perché è proprio vero che in quelle pratiche si sono create complicità e, in certi casi, autentiche congreghe che hanno continuato a frequentarsi per anni. Perché sono stati (e sono) in tanti ad apprendere come si diventa leader dopo aver fatto l’esperienza di capetto di un’occupazione, ad apprendere come si ottiene un facile avanzamento intimidendo i superiori e a spese dei «fessi».



Insomma, Faraone ha ragione perché questa è stata (ed è) una modalità di formazione di una parte (fortunatamente non tutta!) della classe dirigente di questo Paese. Ed è qui che risiede la spiegazione del pozzo senza fondo in cui precipitiamo, la spiacevole sensazione di un Paese diviso in due, di cui una parte ancora resiste ancorata a principi di rigore, di merito, all’idea che è giusto andar avanti soltanto se ci si impegna e si acquisiscono le competenze necessarie; e l’altra che ha imparato come far fuori i «fessi», arrivare rapidamente in alto, intimidire qualsiasi principio d’autorità, a partire da quelli basati sulla competenza e sul merito.



Il sottosegretario Faraone può legittimamente difendere l’idea di una scuola aperta, in cui esista un dialogo profondo tra insegnanti e studenti, ma non può farci bere la favola che il fondamento della struttura dell’istruzione – ovvero l’esistenza di chi sa e di chi apprende – possa essere sostituito dall’autogestione programmata. Dice di aver partecipato alle occupazioni e di ricordarle come «esperienze di grande partecipazione democratica».



Ma gli sfuggono due punti cruciali. Il primo è che anche la partecipazione democratica ha senso se si svolge entro regole estremamente rigorose, che rispettino i diritti di tutti. È quindi grave, molto grave che, in un momento in cui sono all’ordine del giorno le illegalità commesse durante le occupazioni, gli ingentissimi danni materiali e i furti che gettano allo stremo un’istituzione già senza fiato in un Paese che ha sempre meno risorse per porre rimedio a questi danni, in cui l’autorità degli insegnanti e dei dirigenti scolastici è spesso sbeffeggiata e derisa, uno dei massimi responsabili della politica dell’istruzione non solo non condanni questi fatti ma non ne faccia neppure menzione, producendosi invece in una arringa in difesa delle occupazioni. Perché non basta dire teoricamente che le violenze non sono accettabili. Le violenze e le devastazioni sono avvenute e sono in corso e su questi fatti assai concreti occorre prendere posizione.



Forse il sottosegretario Faraone non sa in quale sconforto hanno gettato le sue parole migliaia di insegnanti che tentano ogni giorno (eroicamente, è il caso di dirlo) di tenere in piedi la baracca e domani rischiano di essere presi in giro come antiquati professor Aristogitone da capi e capetti di occupazioni senza capo né coda e dai peggiori tra i loro colleghi, quelli che vogliono evitare grane.
Il sottosegretario non ha percepito che qui è in gioco una grande questione nazionale, che riguarda il tema della legalità, della coscienza di cittadino, del senso del dovere, del rispetto delle istituzioni, incluse le sue strutture materiali pagate con le tasse di tutti i cittadini, che è inutile difendere con retorici corsi alla cittadinanza e poi distruggere con l’altra mano. Quanto poi all’auspicata sostituzione della didattica dei «ragazzi seduti e la cattedra di fronte» con l’autogestione programmata, va detto chiaro e tondo che non c’è bisogno di arrivare alle tesi di Gramsci – secondo cui per abituarsi a studiare occorre imparare a soffrire fisicamente, restando ore e ore inchiodati alla sedia – per sapere che qualsiasi conoscenza o competenza si acquisisce soltanto con l’applicazione, col metodo, col seguire un percorso ben preciso, definito da anni (diciamo pure da secoli) di esperienze culturali e didattiche e di cui il professore deve essere la guida (beninteso secondo principi di rigore anch’essi da verificare). Faraone non è stato l’unico a partecipare ad autogestioni programmate, ma evidentemente ha preferito occuparsi dei sacchi a pelo. Altrimenti, avrebbe capito che anche quando gli occupanti chiedono, con le migliori intenzioni, a esterni di venire a fare seminari e lezioni, tutto finisce in una gigantesca buffonata, se non esistono regole, e accade che, mentre dieci studenti escono altri dieci entrano, in qualsiasi momento dell’incontro, e ogni tentativo di instaurare un dialogo sensato è difficile con chi è entrato mezz’ora dopo, e impossibile con chi è uscito. Figuriamoci poi quando lo studio autogestito è totalmente in mano a un gruppetto di studenti che non sanno neppure di cosa si parli, o se ne hanno, si tratta di idee abborracciate e senza alcuna verifica con un competente. Non solo per apprendere un teorema di matematica, un capitolo di storia, una legge di fisica o il pensiero di un filosofo occorre precisione, basi certe su cui costruire, un metodo che non esce dalla testa da solo e deve pazientemente essere appreso; ma anche per fare qualsiasi mestiere, dall’elettronica, all’idraulica alla panetteria. A ben vedere i due punti che abbiamo sottolineato non sono una cosa diversa. Perché entrambi riguardano la necessaria, indispensabile figura di insegnanti competenti e appassionati della loro professione. Invece qui salta fuori il dramma profondo di questo paese: e cioè che mentre si parla e straparla di merito non soltanto non si fa nulla per affermarlo, che mentre si parla e straparla di valutare gli insegnanti si proclama l’inutilità della loro funzione, e si insinua che la cattedra va abbattuta e la classe dirigente del paese va formata con l’autogestione programmata. E invece di dire che finora la colpa più grave è stata formare una parte della classe dirigente in questo modo (distruggendo la coscienza della legalità e del merito), si fa capire che questa deve diventare la modalità prediletta nel futuro. Se siamo a questo punto, l’accelerazione verso lo sfascio è garantita.