Roma, via Salviati: nel campo nomadi diviso, muro tra serbi e bosniaci

Roma, via Salviati: nel campo nomadi diviso, muro tra serbi e bosniaci
di Lorenzo De Cicco
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Venerdì 12 Maggio 2017, 07:40
ROMA Non puoi non vederlo. È piantato lì, a cinquanta metri dall'ingresso dove sosta la pattuglia della Municipale. Proprio in mezzo. Il «confine». Più che un muro regolare, un viluppo di lamine di metallo, assi di legno e plastica che si mischiano alle baracche di fortuna. Eppure lo sguardo d'insieme fornisce un'indicazione fin troppo chiara: è quello il limite che spacca in due l'insediamento, frontiera fatiscente ma in qualche modo solida tra due mondi messi l'uno accanto all'altro nel 94, in quello che fu il primo campo attrezzato di Roma, eppure rimasti per vent'anni ostili, nel migliore dei casi separati. E forse sarebbe meglio così, considerato che i contatti in genere si portano dietro risse a colpi di bastoni e spranghe, coltellate, quando non si mette mano direttamente alla fondina. «Noi e loro», ripete chi abita dentro al campo di via Salviati. Che sarebbero serbi e bosniaci, conviventi forzati in una cittadella del degrado alla periferia Est di Roma. Una faida dei Balcani a due passi dal grande centro di identificazione degli immigrati di Tor Sapienza.

IL CLAN
Romano Halilovic ha vissuto qui per anni, insieme alla moglie e agli 11 figli. Nell'ala sinistra del villaggio, ovviamente, quella dei bosniaci. In mezzo a questi container di alluminio e ferro, vive ancora il fratello, Davide, uno dei boss dell'insediamento, e Devlia, la nonna delle tre sorelle uccise nel rogo di Centocelle. Quando parli dell'incendio, sono i serbi a indicarti la strada per raggiungere i famigliari di Romano. «Dall'altra parte del muretto, a sinistra», spiega una ragazza, una delle poche a voler parlare con chi non è di queste parti. «Ma Romano non abita più qui», avverte subito. Se n'è andato da tempo. Due volte ha lasciato «Salviati». La prima si è rifugiato in un campo poco distante, in via Gordiani. La seconda, a febbraio, si è spostato dietro al centro commerciale di via Ugo Guattari. È tornato solo dopo la tragedia. E chissà se le sue, di ferite, riusciranno ora a rabberciare quel solco che divide da anni il villaggio sulla Collatina. Da quando? Da sempre, praticamente.

«NIENTE A CHE SPARTIRE»
È una faida che travalica i confini di Tor Sapienza. Per dire: c'è un muro che separa i serbi dai bosniaci anche dall'altra parte di Roma, alla Muratella, quadrante Sud-Ovest, non distante da via della Magliana. È il campo di via Candoni. «La verità è che il Comune in passato ha pensato di mettere insieme persone che per cultura, lingua e affinità non hanno nulla a che spartire», spiega Carlo Stasolla, presidente dell'Associazione 21 luglio. «E questo inevitabilmente crea tensioni». Specie in un ambiente dove non c'è l'ombra di un servizio, dove i roghi tossici sono all'ordine del giorno, dove la Polizia locale difficilmente oltrepassa i cancelli d'ingresso.
E proprio lì, sulla soglia di questa terra di nessuno dove in pochi si azzardano a mettere piede ti puoi imbattere nello sfogo di due vigili urbani in servizio da piantone. «Qui è pieno di pregiudicati, c'è gente che come minimo si è fatta dieci anni di carcere - si sfoga un agente al civico 72 di via Salviati - Il muro c'è quasi dall'inizio, praticamente da quando è nato il campo. Ma pure tra i vari gruppi, ci sono famiglie in conflitto. E qui se non te ne vai con le buone, te ne vai con le cattive». Denunciare, sembrano dire, è quasi inutile. «Una in più una in meno, per loro, non cambia niente. A questi le denunce je rimbarzano». Gli rimbalzano.