Mafia Capitale, Michele Prestipino: «Un potere ma non controllava la città»

Mafia Capitale, Michele Prestipino: «Un potere ma non controllava la città»
di Valentina Errante
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Sabato 22 Luglio 2017, 09:53
Michele Prestipino lo ribadisce anche il giorno successivo alla sentenza: «La mafia a Roma esiste e non siamo i primi a dirlo». Il procuratore aggiunto, che coordina le inchieste della Direzione distrettuale antimafia della Capitale, aspetta le motivazioni della sentenza per stabilire, insieme ai colleghi se e quali punti debbano essere impugnati. «Per noi - spiega - quel gruppo criminale si avvaleva del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e omertà. Non abbiamo cambiato idea». Bisognerà aspettare ancora tre mesi per capire le debolezze dell'inchiesta simbolo della procura di Roma. Un'etichetta che Prestipino, non gradisce: «Non è l'unica inchiesta, ne abbiamo fatte tante», commenta.

Procuratore, per il Tribunale, la mafia di Roma non esiste.
«Bisogna fare una premessa: stiamo ragionando su un dispositivo, che dà alcune indicazioni ma non spiega perché l'ipotesi di 416 bis non sia stata riconosciuta. Detto questo, 41 imputati dei 46 imputati sono stati condannati, il tribunale, con la dovuta presunzione di innocenza fino al terzo grado di giudizio, ha riconosciuto l'esistenza di due associazioni per delinquere. Una delle due, per un tempo lungo e apprezzabile, ha messo in atto condotte sistemiche di corruzione e controllo della pubblica amministrazione. Non si tratta di fatti episodici, ma di un'organizzazione che, attraverso l'operatività dei capi, ha penetrato gli apparati amministrativi del Comune, mettendo a libro paga politici e funzionari, che ricoprivano ruoli funzionali agli interessi dell'organizzazione. Di fatto, l'associazione controllava i nodi cruciali degli apparati per gestire i propri interessi. Il Tribunale ha riconosciuto tutti gli episodi che noi abbiamo contestato e, soprattutto, ha ritenuto questi fatti di estrema gravità, lo dimostrano le pene, graduate nell'entità, per i capi e i sodali dell'associazione».

Però il tribunale non ha riconosciuto quella mafia originale e originaria, tutta romana, che voi avevate individuato.
«Dovremo aspettare le motivazioni, poi valuteremo se e quali parti appellare. Devo ringraziare personalmente i carabinieri del Ros per il lavoro svolto con professionalità e serietà perché, al di là della qualificazione del reato, dalle indagini è emersa la capacità dell'organizzazione di stringere accordi con apparati burocratici, amministrativi e politici, la cui presenza ha inciso pesantemente sulla vita di questa città e sul tessuto economico, mettendo di fatto all'angolo gli imprenditori onesti. Fatti riconosciuti dal Tribunale».

Un'organizzazione che comunque controllava la città?
«Bisogna eliminare un equivoco: la procura di Roma non ha mai sostenuto la tesi che l'organizzazione di Carminati e Buzzi avesse un ruolo dominante su Roma, lo scenario criminale della città è così complesso che la mafia, probabilmente, non è neppure il primo dei problemi, individuabile nella corruzione. A Roma non c'è un'organizzazione che controlla e domina il territorio, la complessità della città è dovuta sia all'estensione che al numero di abitanti. Lo dimostrano le sentenze, come quella per il clan Pagnozzi, i napoletani della Tuscolana, condannati per associazione di stampo mafioso. Poi c'è il capitolo Ostia, con altri arresti e sentenze. Le organizzazioni che operano nella Capitale sono diverse, con diverse matrici, non tutte mafiose. E comunque non abbiamo mai ritenuto che Buzzi e Carminati controllassero la città».

Eppure l'avete chiamata Mafia capitale, Carminati e Buzzi controllavano il Campidoglio
«Per noi l'inchiesta si chiamava Mondo di mezzo. E che il dominio non fosse totale, neppure sull'amministrazione, lo dimostra il fatto che abbiamo dato parere contrario sullo scioglimento del Comune per mafia. Quella che per noi è la cosca di Buzzi e Carminati controllava alcuni dipartimenti. A Roma c'è un problema di circolazione di capitali sul territorio, ricchezze illecite investite in città, dannose per il tessuto economico e gruppi criminali che si stanno autonomizzando, agiscono nelle periferie come a Primavalle, e Tor Bella Monaca, dove sempre più spesso si riscontra l'impiego del metodo mafioso».

Quella che voi avete portato a processo, però, era una mafia diversa, che non è stata riconosciuta. Se tornasse indietro, soprattutto alla luce delle condanne che per la procura rappresentano una vittoria, ipotizzerebbe ancora il reato 416bis?
«Il metodo di questa indagine è stato identico a quello che applichiamo in tutte le inchieste. Si fa un'ipotesi di reato su base indiziaria, poi si passa alla valutazione degli elementi raccolti e alla qualificazione del fatti. Sulle nostre ipotesi abbiamo avuto diversi riscontri: un gip, che ha concesso le misure di custodia cautelare per i reati che noi contestavamo, un collegio del Riesame e infine la Cassazione, che si sono pronunciati confermando le accuse. Rispetto alle condanne abbiamo fatto una valutazione in termini di ragionevole probabilità. Non vuol dire che è giusto, ma noi ne siamo convinti».

È stata una sconfitta?
«Questi sono termini calcistici».
Qualcuno ha parlato di un inutile danno di immagine per la Capitale
«Non siamo stati i primi a parlare di mafia a Roma: nel 1984, il procuratore generale di Roma, nella relazione di inaugurazione dell'anno giudiziario, scriveva che il Lazio e in modo particolare Roma erano diventate l'epicentro di mafia, camorra e ndrangheta. Nel 91, la commissione parlamentare Antimafia approvava la prima relazione sulla penetrazione mafiosa nella capitale e nel Lazio».

Da un punto di vista culturale, cosa rappresenta questa sentenza, secondo la quale la mafia di Roma non esiste?
«Credo che ci si debba porre un problema, dal momento che il Tribunale ha, con ogni evidenza, riconosciuto l'esistenza di un'organizzazione criminale che controllava una fetta di appalti grazie alla connivenza di politici, burocrati e amministratori. Io faccio il magistrato, ma chi fa un altro lavoro dovrebbe interrogarsi».