La città ritrovi se stessa costi quel che costi

di Paolo Graldi
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Mercoledì 25 Maggio 2016, 01:08
Se ne parlerà ancora per chissà quanti anni del «delitto del vinaio del Trionfale», quel «poveretto scannato dal tassista brasiliano ubriaco al quale aveva rifiutato una bottiglia». Una bottiglia che si è dapprima infranta sul capo di Nino Sorrentino, 76 anni. E poi è servita per squarciargli la gola, per farlo morire all’ospedale dissanguato. Certo che questo fatto resterà nella memoria, per tante ragioni e perché si collega alla sensazione di una violenza crescente, feroce, insensata che monta in città rafforzando una sensazione di follia dilagante. Qui vicino, in via Andrea Doria, per dire, l’altra notte c’è stata una rissa dopo la partita all’Olimpico: un gruppo di tifosi del Milan, squadra sconfitta dall’avversaria storica, la Juventus, hanno lasciato gli autobus sui quali dovevano tornarsene a casa e si sono scagliati contro gli avventori di un bar.

Erano armati: coltelli, lame per uccidere. Due feriti, gravissimi. «Colpito due volte senza motivo, alla pancia e a un rene. Avevo l’intestino in mano, sono vivo per miracolo», può raccontare oggi Gianluca Macrì Messineo, tifoso romanista. Era ubriaco fradicio Joelson Bernasconi, origini brasiliane, adottato da bambino, un appartamento a Monte Mario, precedenti per furto e lesioni, licenza di taxi messa in mano ad un tipo dal carattere fumantino, irascibile, un tipo che s’accendeva come un cerino, per un niente. Il movente di questo lampo omicida sta proprio in un rifiuto. Sorrentino da quarant’anni è conosciutissimo in tutta la zona per il suo “Vino e Olio”, un negozietto vecchio stampo che vendeva poco e che lui teneva aperto fino a notte, tanto a casa non l’aspettava nessuno e quel lavoro, incontrare gente, fare due chiacchiere, scambiarsi una battuta in romanesco. Un vero amore, dice la nipote, ripete la sorella, malata, che abita lontano e lo sentiva quasi solo per telefono. La tragedia della ferocia ha avuto bisogno di pochi minuti per compiersi nella sua sconvolgente banalità. Il tassista Bernasconi, così la ricostruzione dei carabinieri, è nella vineria vistosamente alticcio, barcolla, alza la voce, agita quel corpo massiccio e minaccioso. Vuole da bere, ancora da bere.

 

Sorrentino sa come si deve fare con questo genere di clienti e forse conosce quell’uomo che più tardi, ormai con la vita che se ne va col suo sangue, chiamerà “Gianni”. Gli dice che non può servirlo. È contro la legge. Là fuori c’è il taxi, sarebbe da pazzi accontentarlo. L’uomo reagisce come una furia, si alzano grida e un vicino le sente, svegliato di soprassalto, e chiama i carabinieri. Ma l’inizio e la fine della tragedia coincidono, racchiusi nella frazione di pochi istanti, perché Bernasconi colpisce con una bottiglia Sorrentino al capo e con il collo tagliente gli squarcia la gola. Compiuto il suo gesto, il tassista se ne va, imbrattato anch’egli, marchiato dal suo delitto. Ripasserà più tardi davanti a “Vino e Olio”, i carabinieri lo riconosceranno e lui tenterà la fuga investendo un militare e per un soffio non ammazza anche lui. Sorrentino era un uomo mite, servizievole, disponibile, gentile. Certo non un attaccabrighe. Viveva nel suo negozio, che ormai apriva soltanto di sera cercando di tirar su qualche soldo in più contro una concorrenza che s’era fatta asfissiante. Lo conoscevano tutti, ne ammiravano il tratto d’altri tempi e quella sua determinazione, sulla soglia degli ottant’anni, di restare sulla breccia, in trincea. Non s’era accorto che la sua Roma, di notte, è percorsa da lupi mannari, aggressivi e stupidi, balordi di boria.

Ce lo racconta la movida, ogni sera di festa con fiumi di alcol, di questa gente che s’aggira con i coltelli in tasca pronta a far luccicare le lame per un niente.
Ciò accade a Roma nel giorno in cui Daniele De Santis, riconosciuto colpevole dell’uccisione di Ciro Esposito viene condannato a 26 anni di carcere per avere ucciso, vicino all’Olimpico, il tifoso-nemico nel segno di un odio preconcetto, liquido, imperiosamente cieco. L’assenza di un barlume di ragione contrassegna troppo spesso il nostro camminare nel quotidiano. Una lite per un banale incidente, uno sgarbo nel traffico, uno sberleffo calcistico ed ecco che la tragedia si fa avanti imponente e inarrestabile. Che a tutto ciò non ci sia rimedio, che la sicurezza di ciascuno e di tutti sia diventata una spregiudicata speranza è inaccettabile. I tassisti, al loro interno, per esempio, dovranno diventare sentinelle rigorose del loro mestiere, impedire che qualcuno pretenda di ottenere e di utilizzare una licenza che consente di portare in giro la gente, che dal tassista esige garanzie di sicurezza. Per non farsi travolgere da un facile qualunquismo contro la categoria i tassisti per primi, che già sono in strada, dovranno saper difendere il loro buon nome. Arrivano brutte voci, tanti racconti non ostili ma inquietanti. Il “delitto del Trionfale”, del “Vino e Olio” ci spaventa, i carabinieri ci rassicurano, ma non basta. Roma deve ritrovare se stessa, presto. E il rigore, costi quel che costi.
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