Resa Capitale/ E un’altra capocciata viene inflitta a Roma

di Mario Ajello
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Giovedì 9 Agosto 2018, 00:09
Lo spot più auto-lesionista del mondo. Quello che, per pubblicizzare Ostia, lo fa così: «Un’estate senza testate». 
Il riferimento ovviamente è al famoso atto di violenza mafiosa, targato Spada, contro un giornalista della Rai, e la scena ha fatto il giro nel mondo. Riproporre in chiave burlesca e leggerista quell’episodio tanto dannoso per l’immagine della Capitale è qualcosa di insensato. 

Ma anche tutte le polemiche che subito si sono scatenate - del tipo: per esaltare Ostia, non va usato un simbolo negativo - forse non colgono il punto vero. Che è il seguente: in mancanza di altro, e nella decadenza culturale e creativa che ammorba questa parte di Roma, dove pure ci sarebbero le rovine stupende dell’area archeologica, o le ville liberty, o il ricordo felliniano dello Sceicco Bianco da mettere negli spot, si è scelta la testata perché è la testata il segno identitario, purtroppo, di Ostia agli occhi dei più. E questa è la cosa più triste che ci sia. Cioè l’impossibilità di superare un marchio d’infamia, perché quel marchio si è imposto su tutto il resto. Vincendo facilmente la sua partita.

Se insomma questa pubblicità, come tante altre iniziative che si fanno quaggiù, fosse stata gestita con più attenzione, non in maniera casereccia e estemporanea e con il solito refrain della sindaca («Non ne sapevo niente»), si sarebbe evitato di infliggere alla Capitale l’ennesima pena. Che non sta tanto nell’esaltazione impossibile del gesto violento e mafioso, ma nell’automatismo di credere e di far credere che Ostia sia riassuma in quel gesto. 

Nel vuoto delle idee, ci si è aggrappati all’idea peggiore. Ed è un po’ come se la Sicilia, per pubblicizzare se stessa, usasse in maniera scherzosa il volto di un boss di Cosa Nostra. L’ironia è sempre ben venuta, ma bisogna saperla maneggiare. E ora non basta dire, come fa la Raggi, che «lo spot non mi è piaciuto», e non le è piaciuto perché banalizza la mafia. No, quello spot banalizza Ostia. La appiattisce sull’immagine che è risultata vincente, ed è l’immagine meno adatta per rendere appetibile un luogo, che potrebbe avere la forza di raccontarsi in un modo diverso. 

Si dirà, come dice infatti l’attore a cui è stato affidata la pubblicità: si tratta solo di un gioco. Ma giocare comunicativamente con la propria tragedia non è un modo per esorcizzarla bensì una sorta di resa all’ineluttabile. Un siamo così, se vi pare. E non c’è nulla di sdrammatizzante, come nelle intenzioni dei committenti, in uno spot così: anzi c’è la disperata incapacità culturale di uscire da un format negativo. 
Francois de la Rochefoucauld sosteneva che «la violenza esercitata su di noi da altri è spesso meno dolorosa di quella che ci infliggiamo da soli». Può essere. Ma di sicuro, chi dovrebbe riscattare Ostia, cioè Roma, ha deciso di darle un’altra capocciata. E anche questa fa male.
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