Tra i furbetti, secondo la ricostruzione del pm Stefano Rocco Fava, c'era chi si faceva timbrare il badge al mattino da un collega e all'uscita da un altro, senza mettere piede nel poliambulatorio. Come l'uomo che, a dispetto delle liste di attesa, in quel mese per cinque giorni non si è recato affatto in ufficio (facendosi pagare) e negli altri entrava e usciva a piacimento. Un meccanismo che si reggeva con favori reciproci, secondo le indagini, tra furbetti veri e falsi stakanovisti. Un esempio simbolico quello di una donna che il 4 novembre 2015 è risultata presente al lavoro dalle 8 alle 19.34 mentre in realtà, secondo la ricostruzione dell'accusa, non solo si sarebbe assentata per 6 ore e 13 minuti, ma avrebbe strisciato il badge per tre colleghi entrati così falsamente alle 8.05, alle 8.31 e alle 13.14.
LE TELECAMERE
Secondo la ricostruzione del magistrato, gli indagati, «agendo in concorso tra loro e talvolta individualmente, con condotta fraudolente timbravano o si facevano timbrare il badge per poi allontanarsi dalla sede lavorativa e dedicarsi al disbrigo di faccende private». Tra queste fare la spesa, riprendere o accompagnare i figli a scuola, pranzare a casa, andare in palestra.
Ad inchiodarli, le telecamere all'ingresso del poliambulatorio, che per trenta giorni hanno monitorato l'andirivieni dei dipendenti. Ora gli indagati hanno trenta giorni di tempo per giustificare le fughe pagate pure come straordinari. «Il mio assistito», ha detto l'avvocato Mario Murano in difesa di un infermiere, «in realtà vanterebbe anche dei pagamenti. Un caffè al bar non è sempre sinonimo di assenteismo».
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