VOLONTÀ LESIVA
Era consapevole della malattia sin dal 2006, Valentino, sapeva di essere portatore di morte, eppure pretendeva dalle partner rapporti sessuali non protetti. Gli argomenti del legale, che ha tentato di screditare alcune delle vittime, sostenendo che avessero abitudini sessuali discutibili e potessero avere contratto il virus con altri partner, non ha convinto i giudici, che puntano sul pericolo della riterazione del reato. Si legge nella sentenza: «E' evidente che Valentino T., se tornasse in libertà o agli arresti domiciliari, riprenderebbe a contattare delle donne, tramite le chat già a tal fine usate, per avere con esse rapporti sessuali non protetti in attuazione di quella volontà lesiva sviluppata negli ultimi nove anni e della sua particolare attitudine a non raccontare la verità e, anzi, a occultarla con pervicacia».
IL PERICOLO DI REITERAZIONE
Si sottolinea nelle motivazioni: «Non è possibile sostenere che, a seguito dell'attivazione delle indagini e dell'interrogatorio, lo stesso abbia preso piena consapevolezza della gravità della sua condotta ed abbia in modo conseguente cessato di avere comportamenti diretti a trasmettere il virus dell'Hiv». C'è la testimonianza di una donna che ha riferito agli inquirenti di avere conosciuto Valentino T. ad aprile 2015 «tramite una chat denominata Wechat», le indagini erano già in corso, Valentino sapeva di avere contagiato le sue partner e di essere indagato. Eppure ha frequentato per un paio di settimane quella donna tentando di avere rapporti sessuali con lei. E' andata bene, si sono limitati ad effusioni «Perché - scrivono i giudici - lei non era riuscita a lasciarsi andare». Eppure, viene sottolineato, «aveva saputo di aver contagiato delle sue partner; aveva anche ricevuto la visita delle stesse che già avevano chiesto spiegazioni ed avevano espresso la loro disperazione per quanto avvenuto; era stato sentito dalla polizia giudiziaria alla quale aveva falsamente riferito di avere da poco appreso della sua sieropositività: era stato ”rimproverato” dai medici dell'ospedale Spallanzani, che avevano preso in cura le diverse persone offese e individuato nell'indagatro la comune fonte di contagio».
E i giudici concludono: «Questi fatti, allora, dimostrano che l'indagato è intenzionato a continuare nella sua condotta lesiva, non fermandosi neanche di fronte a un primo intervento dell'autorità giudiziaria e della struttura sanitaria che, per il Lazio, si occupa di questa malattia; il tutto ad indicare che l'indagato se posto agli arresti domiciliari, sicuramente, attiverebbe quei contatti telefonici e telematici che gli hanno permesso di compiere i reati per cui si procede, con nuovi incontri diretti a produrre nuove trasmissioni dell'hiv.