Il dramma della città/ Un regolamento di conti sulla pelle della Capitale

di Mario Ajello
3 Minuti di Lettura
Domenica 25 Ottobre 2015, 23:39 - Ultimo aggiornamento: 26 Ottobre, 00:09
Parla dal balcone. Cita il Che. Chiede che Matteo Renzi, appena tornerà dall’America Latina giovedì prossimo, lo incontri per trattare una impossibile prorogatio o una resa alle proprie condizioni. Soltanto Ignazio Marino non trova assurdo il teatro dell’assurdo che lui, insieme al Pd che lo vuole cacciare ma non sa farlo, sta allestendo ogni giorno di più. La prossima volta lo vedremo asserragliato sul Campidoglio, alla maniera - ma quella fu tragica e questa no - di Salvador Allende nel palazzo della Moneda? Per ora in piazza Marte, marziano lui, marziani i suoi supporter mascherati da alieni per farlo contento, marziano il Pd che vede in piazza un pezzo di Pd e non sa che cosa fare, Marino grida il «siamo realisti, vogliamo l’impossibile» che è stato il grido di Guevara ed è diventato l’ultima trovata di Ignazio Che. O Ignazio che stai a di’.

Fuori dalla sceneggiata, c’è una città che vive di urgenze alle quali vorrebbe che fossero date risposte. E invece è spettatrice e vittima del velleitarismo di un sindaco ex - irriducibile al principio di realtà e in piena estasi da realismo magico modello «hasta la victoria siempre» anche se la partita è già finita - e dell’impotenza del Pd.

Un Pd che ha messo sotto gli occhi di tutti le sue divisioni interne ma soprattutto una vera e propria secessione che lo riguarda e lo indebolisce ulteriormente. Perché Marino, nella sua deriva da tanto peggio tanto meglio, è riuscito a portare in piazza un pezzo di Pd, a fare emergere le spaccature esistenti in quel corpo elettorale allo sbaraglio e a evidenziare l’incapacità di una dirigenza politica a saper essere ceto dirigente come accadeva un tempo. Quando i partiti erano dei partiti e non degli apprendisti stregoni qual è stato il Pd romano che ha creato in laboratorio la candidatura Marino - nonostante l’immenso Igor abbia avvertito in “Frankenstein Junior”: «Aspetti padrone, potrebbe essere pericoloso» - nella speranza che coprisse tutte le magagne pregresse e in corso. Per poi scoprire di avere sbagliato l’alchimia e di non saper maneggiare la provetta impazzita. Che adesso insiste e minaccia: «Questa piazza mi dà il coraggio di andare avanti», «Ripensare alle mie dimissioni? Non vi deluderò».

Le macerie di Roma sono dunque un agglomerato di politicismo dell’Ego ma soprattutto di dilettantismo che unisce il sindaco nella sua sfida disperata - da alfiere di una rivoluzione improbabile che nella sconfitta realizza i suoi supposti valori morali - e il suo partito che non ha la capacità di dominare la situazione e mostra tutta la sua fragilità che dovrebbe impensierire Renzi molto più di quanto sia già preoccupato. È un processo a catena micidiale quello che si è innescato. Marino ha fatto una secessione dal Pd (il suo partito che non è più il suo partito), il Pd ha fatto una secessione da Marino e da se stesso (tutte quelle bandiere pro Ignazio sotto il cavallo di Marco Aurelio) e tutti i belligeranti, invischiati in una guerra ombelicale e autoreferenziale, fanno la secessione di gran lunga più grave. Quella rispetto ai problemi e alle richieste dei cittadini, in un momento particolare visto che sta per cominciare il Giubileo.

Si è perso il senso comune, il buon senso e il senso di responsabilità e la “politica come professione” di Max Weber evidentemente a Roma non ha fatto scuola. Come dimostra questa storia in cui il partito più forte ha visto allo specchio nella piazza pro-Marino, piena di bandiere del Pd, il proprio fallimento. Mentre il sindaco ex scambia per popolo di Roma, che in realtà è già oltre, quella piccola folla di supporter che inneggiano a primarie e a lista Marino quando è ovvio che entrambe le trovate fanno parte di un surrealismo fuori tempo e fuori luogo. E il primo a sapere che non ci saranno è proprio colui che dal balcone vellica questo tipo di prospettiva impossibile.

Che Guevara, pessimo politico, sosteneva che «in una rivoluzione vera o si vince o si muore». Qui non vincerà nessuno e nessuno morirà. Ma nel tempo dell’attesa di questo estenuante regolamento di conti, Roma muore.

© RIPRODUZIONE RISERVATA