I piani che mancano/ Con le piccole astuzie non si evita il baratro

di Oscar Giannino
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Giovedì 11 Gennaio 2018, 00:04 - Ultimo aggiornamento: 00:08
Scrivemmo a settembre scorso che occorreva evitare un grande rischio per Atac in merito al concordato in continuità. In quel periodo maturò nella giunta capitolina la troppo a lungo rinviata decisione di richiedere al giudice fallimentare il concordato in continuità per Atac. Il grande rischio da evitare per Atac era quello di credere che la mossa fosse uno stratagemma per prendere tempo: incamerare la protezione del patrimonio residuo aziendale mettendolo al riparo da richieste esecutive dei creditori, ed evitato il fallimento aziendale credere così di avere anni per operare l’enorme risanamento della più scassata municipalizzata di trasporto pubblico locale d’Italia. Fino a questo momento, sembra proprio che ciò che temevamo si stia avverando.

Se accolto dal giudice, il concordato in continuità consente ad aziende in crisi certificata di fare due cose, senza incorrere nella discontinuità aziendale del fallimento. Innanzitutto un serio e rapido piano industriale per il riequilibrio del conto economico, cioè per tornare almeno al pareggio di gestione. E un serio piano finanziario per pagare i creditori in un certo ordine, asseverato dal giudice fallimentare secondo quanto stabilito dal codice ma proposto dal debitore stesso. Nel valutare piano industriale e finanziario, la priorità del giudice è valutare i margini attesi da destinare all’ordinato pagamento dei creditori. E, in anni recenti, si sono accumulate anche valutazioni giurisprudenziali contrarie a piani di pagamento decennali o ultradecennali: perché a quel punto il giudice ha l’obbligo di valutare invece preferenzialmente l’avvio dell’istanza di fallimento.

Per questo servono un piano industriale e finanziario serissimi, visto che l’Atac ha un debito che sfiora 1,4 miliardi, e tra 2009 e 2016 ha perso 1,5 miliardi mentre riceveva 5 miliardi di sussidi. Ancora oggi Atac ha un costo del personale che supera il 45% del totale, 12 volte quello per il carburante utilizzato, e non ha risorse adeguate da investire per risolvere la condizione tragica del parco circolante. Che è all’origine dei milioni di chilometri di corse perse, rispetto a quelle dovute al Comune per contratto di servizio.

Nel 2016 saltarono 10,5 milioni di chilometri pari a poco più di un milione di corse soppresse. Nei primi 10 mesi del 2017 i km persi sono stati già quasi 12 milioni, pari a un milione e 159 mila corse soppresse. Il disastro peggiora, invece di migliorare. Ogni corsa soppressa rispetto al contratto dovuto sono 300 euro in meno che il Comune deve corrispondere ad Atac.

Il termine per presentare al giudice il piano industriale e finanziario completo è il 26 gennaio. Finora i piani completi non sono stati prodotti. C’è solo un elenco di misure per accrescere la produttività. Al contrario, la giunta vuole inserire come parte integrante del piano, anzi come vera pre-condizione, la proroga al 2021 della concessione di trasporto ad Atac mantenendo il servizio in house. Delibera che ieri il Consiglio comunale ha rinviato, ma che verrà assunta in assenza del piano industriale. Frontalmente disattendendo la richiesta firmata da 33 mila cittadini e promossa dai radicali per procedere a una gara pubblica trasparente per il rinnovo della concessione. Al fine di garantire a Roma un trasporto pubblico finalmente adeguato alla domanda di romani e turisti.

Se questa strategia mira a condizionare il giudice, mettendo lui di fronte alla minaccia di un caos nei servizi a fronte del fallimento, è quanto meno azzardata. Il giudice deve valutare la credibilità dei piani in ordine al pagamento del debito: tanto è vero che quand’anche il giudice accolga il concordato, esso entra in vigore solo una volta approvato dall’assemblea dei creditori. Mentre spetterebbe a qual punto ad altri valutare l’intervento di emergenza per assicurare a Roma comunque i servizi di trasporto: a cominciare dal governo. 

Non è un caso che nelle pagine interne troviate un’intervista dell’ex assessore alle Partecipate pubbliche romane Colomban, che non può certo essere sospettato di scarsa lealtà con la giunta Cinque Stelle di cui ha fatto parte, in cui egli per primo avanza seri dubbi su questa maniera di procedere, indicando tra le alternative quella di aprire a un intervento di FS che in questi anni ha ulteriormente rafforzato la sua posizione proprio nel trasporto locale.
A oggi, dunque, in mancanza di interventi ancora non noti, il fantasma di quello che potrebbe inverarsi come il più grande fallimento della storia romana non è affatto dissipato. Davanti a noi ci sono dieci giorni decisivi. Che potrebbero avere un enorme impatto sulla campagna elettorale.

Dimostri la giunta di volere a tutti i costi un piano industriale serio, che deve tagliare molti costi non solo per liberare risorse al pagamento dei debiti, ma soprattutto per investire. In ogni caso la protrazione in queste condizioni del servizio in house è un errore. Non solo, come rimarca l’Antitrust, per ragioni di lesa concorrenza. Ma soprattutto perché, in caso di gara aperta, chi ne risultasse vincitore secondo legge dovrebbe utilizzare personale proveniente da Atac. Che avrebbe non solo un futuro forse migliore, ma non sarebbe più esposto alle sacrosante proteste della Capitale. 
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