Rieti, morte di Anna Bulgari Calissoni:
uno dei rapitori fu catturato a Rieti

Claudio Cadinu
di Massimo Cavoli
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Lunedì 25 Maggio 2020, 00:59 - Ultimo aggiornamento: 14:20
RIETI - Si arrese, dopo frenetiche trattative con i carabinieri che avevano circondato il residence al Terminillo dove si era barricato e che minacciava di far saltare in aria, in cambio della promessa che non ci sarebbero state conseguenze per la moglie che l’aveva seguito nella latitanza, insieme al figlioletto e a un nipotino. I militari dell’Arma furono di parola e Claudio Cadinu, un bandito appartenente al Movimento armato sardo, frangia terroristica nata sulle ceneri di Barbagia Rossa, aprì la porta consegnandosi al giovane capitano Fulvio Piacentini, ma non prima di aver bruciato in cucina alcuni documenti, un’agendina con nomi e numeri di telefono, rullini fotografici e diverse banconote dei sei milioni che facevano parte del riscatto. Era il 9 febbraio 1984 e finì in questo modo la latitanza di uno dei carcerieri di Anna Bulgari Calissoni e suo figlio Giorgio, sequestrati ad Aprilia il 19 novembre 1983, per il cui riscatto la banda ottenne 4 miliardi, uno dei più alti mai pagati per un rapimento in Italia.
La storia di Cadinu è tornata ora di attualità dopo la morte di Anna Bulgari Calissoni, erede della dinastia di gioiellieri di via Condotti a Roma, rimasta nelle mani dei rapitori sardi fino al 21 dicembre insieme al figlio diciassettenne, al quale fu amputato anche un orecchio (ricostruito dopo una serie di operazioni) per accelerare il pagamento del riscatto. La notizia dell’arresto di Cadinu rimbalzò in tutte le redazioni giornalistiche nazionali, gli inviati in poche ore si ritrovarono davanti alla caserma di via Cintia e i telegiornali riservarono all’operazione dei carabinieri ampio spazio anche perché, contemporaneamente, in altre città d’Italia erano stati fermati quasi tutti i componenti del gruppo. Le indagini accertarono che Cadinu aveva svolto il doppio ruolo di telefonista e carceriere, durante una prigionia «in cui siamo stati trattati come bestie», raccontò la signora Bulgari Calissoni. Il maresciallo del reparto Operativo Franco Bianchi, che affiancò il capitano nella lunga trattativa, ricorda: «Mi spacciai per il colonnello comandante del gruppo che si trovava anche lui al Terminillo, e gli dissi: diamo la nostra parola che non ti succederà nulla se mi consegnerai la pistola. Furono attimi interminabili, ma alla fine si convinse. Mi passò l’arma dalla finestrella del bagno che affacciava sul terrazzino esterno e quando entrammo si lasciò ammanettare senza reagire, ma i suoi occhi esprimevano uno sguardo terribile».
A tradire Cadinu fu l’uso di banconote da centomila lire con le quali faceva acquisti nei negozi del Terminillo, e un’informativa dei servizi segreti che l’avevano localizzato nella zona. A Rieti, per la detenzione della pistola, in un’aula del tribunale affollatissima di gente, fu condannato per direttissima a due anni, poi gli furono inflitti in Corte d’Assise 30 anni per il sequestro.
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