Rieti, proiettili e minacce: ipotesi
di reato archiviata per gli indagati

Tribunale
di Massimo Cavoli
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Domenica 3 Giugno 2018, 08:06 - Ultimo aggiornamento: 13:53
RIETI - Quei proiettili, accompagnati da pesanti minacce, contenuti in buste inviate nel febbraio del 2013, avevano suscitato grande tensione, non fosse altro perché i destinatari erano l’allora sindaco di Poggio Mirteto, Fabio Refrigeri («Verrai bruciato vivo»), e il commissario prefettizio alla Provincia, Giancarlo Felici, («Stai molto attento a quello che fai e guardati le spalle, brutto ladrone»). Stesso trattamento (minacce e pallottole), in precedenza, era stato riservato all’architetto Letizia Sergola («Questa è per il primo avvertimento, la seconda ti verrà piantata in fronte»), tecnico del comune di Poggio Mirteto, e all’assessore all’Urbanistica Roberto Marcelli («Se non espatri entro dicembre ogni giorno è buono per piantarti una pallottola nel cuore»). Frasi inquietanti, che avevano portato carabinieri e procura a indagare per estorsione aggravata tre componenti della famiglia D’Alessandri (Luigi, 87 anni, i figli Amedeo Angelo, 57 anni, e Stefano, 58 anni), titolari della ditta per l’estrazione di materiale inerte dalla cava di San Domenico, a Salisano (difesi dall’avvocato Marco Bonamici), nei cui confronti l’ipotesi di reato è stata però archiviata dal giudice delle indagini preliminari su richiesta del pubblico ministero: i sospetti su di loro - che il gip Pierfrancesco de Santis definisce «fortissimi» perché erano gli unici a nutrire rancori nei confronti delle vittime - non si sono tramutati in prove e in un processo l’accusa non sarebbe stata sostenibile.

LE TAPPE
Un impianto al centro di uno scontro, iniziato nel 2009 tra amministrazione e cavatori, a causa della mancata proroga dell’autorizzazione, sfociato, nel 2012, in un sequestro penale e, nel 2015, nella condanna in tribunale della ditta a pagare 86mila euro di sanzioni al Comune mirtense. Prima ancora, Luigi e Amedeo, accusati di aver minacciato tecnici e agenti della polizia locale, erano stati condannati a sette mesi (pena sospesa per il padre). Insomma, non proprio un clima idilliaco, fino a quando padre e figli erano stati indicati dagli stessi destinatari delle buste anonime, durante gli interrogatori condotti dai carabinieri, come i possibili responsabili, e per questo erano stati indagati, perquisiti e intercettati. Le indagini avevano portato solo al sequestro di due buste, simili a quelle usate per spedire le pallottole, ma non della macchina da scrivere, appartenente a un altro componente della famiglia D’Alessandri (estraneo ai fatti), usata per compilare i fogli di carta sui quali, però, il Racis non aveva rilevato le impronte digitali degli indagati. Lo strumento, riparato da un tecnico a ridosso dell’invio delle ultime due lettere a Refrigeri e Felici, era stato però rottamato prima della perquisizione. Ma, secondo il gip, il mancato rinvenimento riveste solo un valore di «alta suggestività indiziaria», senza costituire una prova di colpevolezza.
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