Rieti, coronavirus. L’infermiera in prima linea:
«Giorni tra timori e fatica»

Operatori sanitari
di Raffaella Di Claudio
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Venerdì 1 Maggio 2020, 01:38 - Ultimo aggiornamento: 14:40
RIETI - Coronavirus. Le parole di Chiara, infermiera, da Fara Sabina a Roma. La paura sui volti dei pazienti, turni prolungati.
«Ricorderò la paura della prima volta in reparto e i volti spaventati dei pazienti». Quando un giorno tutto questo sarà finito, nel bagaglio umano e professionale di Chiara resteranno impresse immagini e sensazioni di «un’esperienza forte e formativa». Chiara D’Agostino ha 26 anni, vive a Fara Sabina e da tre anni è infermiera. Dal 13 marzo è tra gli operatori sanitari in prima linea per combattere la pandemia. Ha risposto alla domanda di reclutamento di personale, aperta da una struttura ospedaliera romana per far fronte all’emergenza Covid-19. Ma non chiamatela eroina. «Sono un’ infermiera - dice con naturalezza - non ci ho pensato nemmeno un attimo a mettermi a disposizione nel pieno dell’emergenza. Se fai questa professione la fai per passione ed è normale mettersi a disposizione quando c’è bisogno del tuo aiuto. Non è da eroi».

La decisione
Chiara non ha mai avuto dubbi anche quando i familiari erano spaventati dalla sua scelta. «Inizialmente - racconta - come è normale che sia, i miei genitori avevano ansie e paure, poi però hanno compreso le mie motivazioni. Mi hanno supportato e mi sono stati sempre vicino, anche durante il periodo di isolamento». Per sicurezza Chiara ha vissuto da sola per due mesi. «Quando ho iniziato a lavorare nell’emergenza - spiega - ho deciso di isolarmi per proteggere la mia famiglia e, soprattutto, i miei nonni dal rischio di contagio. Ho vissuto in un mini appartamento separato dal resto della casa per due mesi, fino quando non ho ricevuto l’esito negativo dei tamponi che ho fatto. Sono stati giorni difficili». Sospesi tra fatica e timori. «La prima volta che ho preso servizio nel reparto Covid ho avuto ansia e paura - ammette - credo sia normale. Entri in contatto con persone che sei sicura essere positive quindi devi pensare a salvaguardare te stessa per poter continuare ad aiutarle. La prima cosa che dobbiamo fare è vestirci: indossare tuta bianca, occhiali, doppia mascherina e tre paia di guanti. Tutto avviene in una zona filtro dove si eseguono le operazioni di vestizione e svestizione, queste ultime ancora più importanti perché a quel punto sei contaminato. La prima notte sono stata in servizio 10 ore, senza mai bere e andare in bagno. Dentro quella tuta fa caldo, sudi, ti manca l’aria. Nel reparto i malati si sentono soli e ti guardano con occhi impauriti: quella specie di armatura che dobbiamo indossare fa venire meno il rapporto di fiducia e vicinanza fondamentale tra infermiere e paziente». A chi ancora oggi pensa che il Covid-19 sia un’influenza, Chiara assicura che non è così. «È un virus sconosciuto: non sai se le terapie sono efficaci, non sai come si evolve e quanto resta all’interno del malato e servono continui test e ricerche». Mentre agli infermieri spetta il delicato compito dell’assistenza. «I malati - continua Chiara - chiedono quando finirà tutto questo, quando potranno rivedere i parenti e se la malattia può peggiorare. Sfogano le loro paure su di noi che cerchiamo il più possibile di tranquillizzarli, ma non è semplice». Un grande sacrificio, «di cui vale la pena - assicura Chiara - come quando ho fatto una videochiamata alla moglie di un paziente. La sua emozione nel rivedere il compagno, mi ha ripagato di ogni sacrificio».
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