Gigi Proietti, il ricordo di Rieti e delle serate leonessane

Gigi Proietti
di Sabrina Vecchi
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Martedì 3 Novembre 2020, 15:17 - Ultimo aggiornamento: 16 Febbraio, 16:39

RIETI - «Famose ‘na foto, tutto sommato sei ‘na collega». Correva l’anno 2018, e Gigi Proietti tornava a interpretare il giornalista de Il Messaggero Bruno Palmieri, nella fortunata serie tv “Una pallottola nel cuore”. Anche quella volta, la conferenza stampa si trasformò in una lezione di umiltà del più grande attore dello spettacolo italiano, che volle quasi abbassarsi - anche in altezza, da spilungone quale era - verso chi lo intervistava. «Ma che state tutti qua pe’ me? Ammazza!», e giù a ridere, a sdrammatizzare, a tenere corda a tutti con sagace ironia ma senza mai perdere la classe che lo contraddistingueva. Di Gigi Proietti, oltre a una professionalità senza uguali, ti colpiva l’eleganza, lo stile innato che gli permetteva di indossare i costumi shakesperiani e l’accappatoio di Totò, il frac di Petrolini e la divisa del cameriere goffo con la stessa identica credibilità attoriale. Non era un giullare, non era un barzellettiere, e dall’alto della sua carriera e della sua cultura si divertiva a prendere beatamente in giro i colleghi «impegnati» e narcisisti, quelli «co la puzza sotto er naso» che si accontentavano degli «applausi mosci, quelli appena appena, senza manco tocca’ le mani». Lui invece, si definiva semplicemente un attore, senza aggettivi: ed era il più grande. 
La sua rarissima capacità di “cambiare registro” e di adeguarsi in maniera signorile e garbata alle circostanze e al pubblico la dimostrò anche a Rieti nel 2011, quando in un teatro Flavio strapieno si raccontò a cuore aperto agli spettatori: ogni volta come fosse la prima, e ogni volta con quello stupore negli occhi che gli faceva dire a mezza bocca: «Ma che, sete venuti pe’me? Dio ve benedica!». Fu un pomeriggio memorabile, e le risate – manco a dirlo – si sprecarono. Si parlava di carriera e del sudore versato sui palcoscenici improvvisati di periferia, «vestito da upupa co la calzamaglia verde per recitare Aristofane, me tirarono li sassi», degli aneddoti sulla sua Roma «che non glie manca la bellezza ma è tanta pure la monnezza», della madre che dopo il grandissimo successo del primo “A me gli occhi please”, disse al figlio che lo spettacolo le era «abbastanza piaciuto». Era originaria di San Clemente di Leonessa, mamma Giovanna, ed è da lei che il figlio aveva preso il fare ironico e sornione, intriso di dialetto e modi spicci.

Le serate leonessane 
E “Giggi”, «co’ due g, se capisce», ci tornava spesso a trovarla, e usava pernottare all’Hotel La Torre, proprio alle porte del paese, oppure da amici. «Chi se le scorda certe serate», racconta il leonessano Giuseppe Zelli. «Era l’inverno degli anni Settanta, Proietti stette in paese più di dieci giorni. Si alzava tardi, prendeva il cappuccino in piazza e faceva una passeggiata sul corso. Ma il bello veniva la sera». Al ritorno dal lavoro, il paese intero si riuniva al pub, e aspettava l’arrivo del “mattatore”: «Facevamo tardissimo, tiravamo giorno, e l’indomani dovevamo andare a lavorare: ma non ci saremmo persi quelle serate per nulla al mondo». Giuseppe ricorda il grande interesse di Proietti per il dialetto locale, talmente incuriosito da certi modi di dire da appuntarseli in un taccuino. «Ma il grande regalo ce lo fece nel 1976, quando con il gruppo dialettale “Il Cardo” recitammo al Teatro delle Muse di Roma. Venne ad assistere, volle fare una foto con noi e ci fece i complimenti: fu un grande onore». Ma di Gigi Proietti c’è da scrivere questo, e un’enciclopedia di altro. «Me faccia il piacere, me richiami più tardi, sto a Belgrado vestito da Papa e fanno quaranta gradi, sto in una situazione che nun je dico», mi disse quando lo chiamai per un’intervista, all’inizio del 2012. Niente manager, niente filtri, al cellulare rispondeva lui. E quante risate quanto alla presentazione dell’ultima serie de “Il Maresciallo Rocca” interruppe il dg della Rai e il Comandante Generale dell’Arma per chiedere se lì dentro «se poteva fuma’». Tutto era teatro, tutto era scuola, e ogni minuto era buono per apprendere, per assorbire come una spugna, per sdrammatizzare anche i momenti più brutti. 
Di lui resta la lezione dello studio e della gavetta, del senso assoluto del mestiere che lo portava a replicare per la millesima volta come fosse la prima, dandosi al suo pubblico senza sconti nè ritrosie da grande divo, con perenne riconoscenza verso chi sceglieva di pagare un biglietto per andarlo a vedere. «Fatemelo n’altro applauso che io ce campo co’ voi», disse al Parco della Musica di Roma.

Era quasi mezzanotte, e dopo tre ore di spettacolo con la camicia bianca matida di sudore si avvicinò a una signora in prima fila: «Signo’, non hai riso mai! Dimme che voi, lo faccio solo pe’te». La «buttava in caciara» sempre e comunque, consapevole di una carriera solidissima e di una padronanza da palcoscenico più unica che rara, che gli consentiva di scherzare su tutto senza mai risultare stucchevole o di cattivo gusto, «perché chi nun sa ride me insospettisce». E come tutti i grandi del teatro aveva ironizzato spesso pure sulla sua morte, su una data di nascita, il 2 novembre, «che è quella che è». Vabbè che tutto è spettacolo, caro Gigi. Ma andartene proprio il giorno che compi ottant’anni, anche meno coi colpi di scena.

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