L'ex monsignor Charamsa torna alla carica: «In Vaticano ci sono preti gay con compagni»

Charamsa al Padova Pride village
di Marco Pasqua
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Venerdì 1 Luglio 2016, 14:38 - Ultimo aggiornamento: 15:19
Nove mesi fa, il coming out che ha scosso la chiesa e il mondo. Un teologo, professore, monsignore e ufficiale della Congregazione per la Dottrina della fede, decise che era arrivato il momento di dire basta e di dichiararsi, pubblicamente: «Sono gay e amo il mio compagno». A distanza di poche ore dovette rinunciare a ogni incarico. «Rifarei tutto, non sono affatto pentito», dice oggi sereno Krzysztof Charamsa, ospite del Padova Pride Village, in occasione del lancio del suo libro, "La prima pietra".

Nessun pentimento e, anzi, la consapevolezza di avere preso l'unica decisione possibile per essere felice, con il suo compagno, con il quale vive a Barcellona. Non fa sconti a nessuno, parla di un Vaticano "diabolico" relativamente al trattamento riservato alle persone omosessuali. Un luogo dove «i preti omosessuali vedono i loro compagni nei week-end, di nascosto». «Le intenzioni di papa Bergoglio erano buone - sottolinea Charamsa, parlando alla presenza, tra gli altri, del padrone di casa della popolare manifestazione Glbt veneta, il parlamentare dem Alessandro Zan - voleva davvero che la chiesa iniziasse a studiare le minoranze sessuali. Ma il sistema lo ha mangiato e dominato e oggi io vengo ancora considerato un "pervertito animale"».  

Il coming out. «Il coming out è un dovere morale per un omosessuale, è un passo indispensabile per essere felice - ha detto ricordando quel 3 ottobre dell'anno scorso, quando ha deciso di uscire allo scoperto - Sapevo ciò a cui sarei andato incontro, anche se non immaginavo che mi avrebbero chiuso la porta in faccia poche ore dopo la mia conferenza stampa, e per di più sotto il pontificato di Papa Francesco. Agli occhi della chiesa sono solo un "pervertito animale" che ha sbagliato strada». Da quel giorno, Charamsa - che parla alla platea riunita sotto al palco Boulevard, nella Fiera - non è più tornato alla Congregazione: «Ho lasciato lì tutte le mie cose: i libri, i vestiti. Non ho avuto il tempo di riprendere niente. E non sapete quanti colleghi mi hanno preso in giro: potevo avere tutte le case che volevo, ma ho deciso di dire basta». «Volevo ripartire da zero - ha aggiunto -  Per me è stata una liberazione da qualcosa che era diventato insopportabile. Pensavo solo a vivere con chi amavo». Contesta il celibato imposto ai preti e lo definisce «una prigione che ti impedisce di accettarti in quanto omosessuale». 

Preti gay. L'ex ufficiale della Congregazione per la dottrina della Fede racconta di aver conosciuto «altri preti omosessuali», anche all'interno del Vaticano. «Non li condanno - ha detto - anche se non si accettano. Alcuni di loro sono fuggiti, di notte, per non farsi vedere. Ma ancora oggi vivono con i sensi di colpa e la vergogna. Non sono guariti dall'omofobia». Sulla sua pagina Facebook, racconta di ricevere molte email dai compagni di preti gay: «Mi dicono che soffrono e mi chiedono un aiuto. Purtroppo quelle persone sono paralizzate dalla paura». Dopo il coming out, continua, il vescovo della sua diocesi ha imposto a tutti i preti di rompere i rapporti con Charamsa: «Ha persino scritto a delle persone che mi erano amiche su Facebook, chiedono loro di rimuovermi dai contatti». 

L'omofobia della chiesa. Per l'ex monsignore, l'atteggiamento della chiesa verso i gay è lungi dall'essere di apertura: «Non credete alla chiesa che dice di condannare il peccato ma non l'omosessualità. Non è vero. Il suo insegnamento è volto a farci sentire inferiori e tormentati da un continuo senso di vergogna e inferiorità, tanto che molti di noi hanno provano schifo». Una vera e propria persecuzione, quella messa in atto dalle gerarchie vaticane - sostiene sempre Charamsa - nei confronti dei gay: «Da qui il bisogno di nasconderci, anche ai nostri occhi, in una situazione totalmente schizofrenica. Oggi la chiesa dice che l'omosessualità è una malattia, una situazione patologica. Il catechismo sostiene che la maggior parte degli omosessuali vive il proprio orientamento sessuale come fonte di dolore. A loro dico che noi siamo sani e siamo felici di essere omosessuali. E se io ho sofferto, non è stato per la mia omosessualità ma per l'omofobia, che mi ha rubato gli anni più belli della mia vita. Non avevano il diritto di impormi quella sofferenza interiore che ho vissuto. Mi hanno chiuso in una gabbia di una perversa schizofrenia. Forse avevano il diritto di farlo nell'Ottocento. Non oggi».

Non risparmia, naturalmente, quella Congregazione per la dottrina della Fede nella quale aveva riposto la speranza di un cambiamento che non è arrivato: «Lì vigeva una paranoia che non permetteva di affrontare il tema delle minoranze sessuali. La chiesa non ha iniziato nessun dialogo e  la congregazione che dovrebbe studiare i nuovi problemi, era capace solo di raccontare barzellette sui gay». Per questo, sostiene che la chiesa «agisce in maniera anti-evangelisca e diabolica», perché non permette il confronto e la verifica razionale di questi temi. Per Charamsa, «la chiesa è terrorizzata dai gay che fanno coming out, perché un cristiano può solo soffrire per il suo stato depravato e patologico, senza dichiararsi. Per il Vaticano la discriminazione degli omosessuali è giusta: un gay, infatti, non può fare il maestro a scuola; non può avere contatti con i bambini; non può essere soldato; a un omosessuale si deve rifiutare di affittare la casa (documenti sull'omosessualità)». 
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