Non solo trivelle/ La nuova rotta sull’energia per superare l’Italia dei no

di Giulio Sapelli
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Martedì 19 Aprile 2016, 00:12
Il mancato raggiungimento del quorum al referendum non è solo una vittoria del governo, è soprattutto la vittoria di quanti credono che una nuova politica energetica possa essere una grande risorsa per il nostro Paese, ed è quindi la migliore occasione per svolgere qualche riflessione sulla politica energetica nel mondo globalizzato. L’Italia è un Paese che è riuscito a costruire la propria industrializzazione grazie all’apporto di nuove risorse energetiche.

All’inizio del Novecento e a cavallo della prima guerra mondiale, seguendo l’indicazione di quel grand’uomo che fu Francesco Saverio Nitti, si scoprì e si utilizzò il cosiddetto carbone bianco, ossia l’energia idroelettrica che pose le basi della nostra trasformazione da nazione agricolo commerciale a industriale. Una trasformazione che definitivamente si compì nel secondo dopoguerra grazie alla quella forza industriale che impersonò Enrico Mattei con la creazione dell’Eni.

E la trasformazione proseguì negli anni ’50/’60, con la rottura dell’oligopolio elettrico e la sua nazionalizzazione con la creazione dell’Enel. L’Italia sfuggiva così allo strangolamento degli alti prezzi dell’energia dettati dagli oligopoli internazionali e balzava a far parte del novero delle grandi potenze industriali tanto con le grandi imprese, quanto con le piccole e medie sue attività produttive. Oggi siamo nella bufera della persistenza di una recessione mondiale da deflazione.
 
Una recessione alimentata sul piano energetico anche dalle situazioni conflittuali geostrategiche, come ha reso manifesto il fallimento dei colloqui di Doha tra Stati appartenenti all’Opec e Stati non appartenenti, primo fra tutti la Russia, sulla limitazione della produzione mondiale di greggio così da favorirne il rialzo del prezzo sui mercati. La mancata adesione dell’Iran, oltre a provocare il fallimento dell’accordo, ha reso manifesto il fatto che la nuova frontiera del potere energetico risiede più che nelle grandi compagnie petrolifere, negli Stati che posseggono enormi riserve di oil and gas. L’Italia non possiede né le une né le altre; è però sempre stata una piattaforma geopolitica protesa tra i Balcani e l’Africa, e infatti ha trovato il suo destino energetico nei rapporti con la grande Russia slava e importanti e tormentati Paesi fornitori del nord Africa.

È in questo contesto che entriamo ora nella terza fase della nostra storia energetica, dopo le liberalizzazioni e le privatizzazioni imposteci sia dalla globalizzazione finanziaria sia da un’Unione Europea realizzatasi sotto l’usbergo del liberismo economico dispiegato. Ma questa terza fase non è solo contrassegnata dalla finanziarizzazione e dal liberismo; essa è contrassegnata dall’emergere di nuovi miti trascinatori delle folle che, se colgono i nuovi problemi della riproducibilità dell’essere umano, ad essi danno una risposta troppo spesso neoromantica e luddista, antitecnologica tout-court. Mi riferisco ai grandi temi del cambiamento climatico e alla lotta contro la pollution, tutte pulsioni emotive delle masse che passano attraverso la corale e inarrestabile richiesta di una migliore qualità della vita, che passa sotto il nome di sostenibilità ambientale.

Il referendum trivialmente identificato come il Referendum sulle Trivelle è appunto il frutto di queste profonde pulsioni che promanano dall’inconscio collettivo. A queste pulsioni inarrestabili l’industria italiana ha dato risposte adeguate ben prima del referendum e ben prima dei cosiddetti accordi di Parigi sul clima. Basti pensare alla trasformazione dell’industria chimica nazionale che ha da tempo superato in senso positivo i cosiddetti parametri di Kyoto attraverso le sue grandi innovazioni organizzative e tecnologiche; basti pensare al fatto che le nostre due grandi imprese energetiche, l’Eni e l’Enel, sono da anni all’avanguardia nella cosiddetta chimica verde, nella riduzione delle sostanze che definiamo prudenzialmente nocive nella benzina, negli investimenti nelle cosiddette energie rinnovabili, che io per probità scientifica e intellettuale chiamo integrative con quelle che derivano dagli idrocarburi fossili, ossia il sole, il vento, le biomasse, il moto ondoso, eccetera. E lo stesso può dirsi della miriade delle nostre imprese municipalizzate e delle imprese private, che hanno sostituito gli antichi monopoli e che ora riforniscono gli utenti finali.

Tutta questa grande trasformazione non riesce ancora a dare frutti che si concretano soprattutto nella necessità di abbassare il costo dell’energia per imprese e famiglie. Le prime trarrebbero vantaggi sul piano della produttività totale dei fattori per meglio competere, le seconde vedrebbero alleggeriti i loro bilanci essendo più resilienti alla deflazione e alla povertà. Nel Regno Unito sono state fatte ricerche che documentano come dopo la selvaggia liberalizzazione energetica sono nate estese forme di povertà energetica ossia decine di migliaia di famiglie che non riescono a pagare la bolletta. Per questo occorre porre, come giustamente è intenzionato fare il governo, un termine ai sussidi erogati su scala regionale (e purtroppo anche centrale) per quelle forme di energia non fossile che riproduce la dispersione caotica e improduttiva di imponenti risorse.

Occorre altresì avere contezza che la nostra posizione a cavallo tra Balcani e Africa ci impone di collegare strettamente ancor più la visione di lungo periodo per una politica energetica che venga sostenuta da una strategia geopolitica che deve essere perseguita con fermezza e senza cedimenti: il rapporto con la Russia è cruciale quanto quello con l’Algeria, la Libia, l’Egitto, così come con la Nigeria, l’Angola e il Mozambico. Tutte le grandi potenze vivono e interpretano il ruolo delle loro grandi compagnie energetiche come grandi compagnie di bandiera, ossia come grandi imprese che affermano la potenza della nazione, siano esse di proprietà pubblica siano di proprietà privata.

Ma così si deve fare anche per il nuovo, impetuoso cammino che bisogna aprire alle energie cosiddette non fossili, che debbono sostenersi economicamente da sole grazie all’investimento tecnologico e alla cultura di mercato. Per vincere la battaglia per un’energia sostenibile, ossia che non inquini ma che nel contempo sostenga la competitività delle imprese e il bilancio delle famiglie, attraverso la produttività degli impianti che consentano bassi prezzi, abbiamo bisogno di tutto e di più: tanto delle nostre piccole risorse nazionali di petrolio e di gas, che il referendum voleva mettere in discussione, quanto del risparmio energetico, che contrassegna il grado di civiltà di un popolo. Questo in definitiva è il futuro che ci attende: fonti energetiche diversificate che siano il frutto delle nostre immense capacità industriali e un soprassalto di civilizzazione a cui dobbiamo richiamare i nostri cittadini.
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