Industria al palo/ La strategia del no condanna il Paese

di Nando Santonastaso
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Martedì 7 Agosto 2018, 01:05
È questo il tempo dei no. Tanti, sicuramente troppi e certamente discutibili. Soprattutto perché appaiono sempre più privi di una qualsiasi prospettiva alla quale improntare il racconto del futuro del Paese. No al gasdotto mediterraneo, no alla semplificazione delle norme che hanno in qualche modo garantito l’assunzione di giovani al lavoro, sia pure con contratti a tempo determinato. No all’obbligatorietà dei vaccini. No e sempre no alle grandi opere, come la Tav Torino-Lione, considerate una sorta di condanna senza appello per l’economia e l’occupazione. 
È il tempo del “blocchiamo tutto”, della cultura esasperata del sospetto, della smania della revisione di contratti già stipulati e persino avallati da altri Stati. Dello stop neanche troppo sottinteso ad un sistema industriale dipinto quasi sempre a tinte fosche ma che in realtà è molto diverso da come lo si dipinge e che nel corso di questi ultimi anni ha permesso all’Italia di restare comunque la seconda potenza manifatturiera dell’Europa nonostante la crisi economica.
Il no emerso ancora ieri pomeriggio al tavolo ministeriale per il passaggio dell’Ilva di Taranto agli indiani di ArcelorMittal è solo l’ultimo della serie. E la sensazione è che nessuno si aspettava un esito diverso, una scelta di campo finalmente certa per il rilancio del gruppo siderurgico. Il governo, o almeno la parte pentastellata di esso, sembra più interessata a sapere se si può riaprire la gara - partendo però da posizioni decisamente più arretrate di quella di 15 mesi fa, come ha ben osservato il segretario nazionale della Fim Cisl, Marco Bentivogli - che a rispondere all’urgenza di 15 mila lavoratori pugliesi e alle loro famiglie ad mesi in cerca di chiarezza. Sembra assurdo ma la realtà dei fatti di questi ultimi giorni conferma che il possibile fallimento della trattativa, giunta poche settimane fa ad un passo dalla sua definitiva conclusione, possa essere accettata quasi come ineluttabile nonostante le pesanti e angoscianti conseguenze economiche che esso produrrebbe e senza nemmeno un passo in avanti sotto il profilo ambientale e della salute pubblica. Una sorta cioè di variabile indipendente di cui non si sente affatto il bisogno, l’esatto opposto di un confronto che dovrebbe prescindere da pregiudiziali ideologiche e politiche, considerato che è in gioco il destino del più grande impianto siderurgico d’Europa e, appunto, dei suoi occupati. Il tempo del no prescinde, evidentemente, da quel senso di equilibrio che soprattutto al Sud era ed è lecito ancora attendersi da chi in quest’area ha ricevuto il sostegno elettorale più forte. 
Al contrario domina una confusione che si era in qualche modo anche percepita nelle settimane precedenti le elezioni politiche ma che ora esplode in tutte le sue pericolose contraddizioni. E per di più proprio nella terra che di esse meno ha bisogno considerato il grave ritardo che continua ad accumulare il Mezzogiorno nei confronti del resto del Paese. 
Peraltro anche la strombazzata priorità del Reddito di cittadinanza sembra avviarsi, come si temeva, verso un complicatissimo e non breve percorso condizionato dai paletti della Ragioneria dello Stato. Anche qui è arrivato un no, stavolta pero’ carico di ragioni e di conti indiscutibili, quelli della mancanza di risorse per la copertura del provvedimento assistenziale. Pensare che l’Europa possa ampliare i cordoni della flessibilità, accettando di concedere più risorse non agli investimenti ma a misure ben distanti, appare francamente molto improbabile. A meno che, prevedendolo, non si voglia cavalcare politicamente un altro fronte anti-Ue in vista del voto 2019: ma questo appartiene ad uno scenario ancora in itinere per quanto piuttosto credibile nella sua evoluzione, visto il clima.
Di sicuro è quasi un paradosso ciò che sta accadendo in questi giorni: il Sud non sa che fine faranno opere strategiche per se’ e per l’Italia, come il gasdotto Tap; non ha alcuna idea del futuro della più grande realtà manifatturiera del Paese, il gruppo Ilva, appunto; e non ha nemmeno la più pallida di quando il piano di sostegno alla fascia più a rischio della sua popolazione potrà decollare e con quali gradualità. Bisognerebbe probabilmente riflettere sul fatto che è la mancanza di una visione strategica a emergere in tutta la sua evidenza, accompagnata da un senso di disagio nei confronti dell’industria che gli imprenditori hanno già colto da tempo (da Confindustria a Confcommercio) e che non promette nulla di buono alla vigilia della legge di Bilancio. Anche perché, ed è forse il vuoto che più dovrebbe preoccupare i giovani meridionali in particolare, dal vocabolario del governo, o almeno di una parte di esso, sembra essere scomparsa del tutto la parola innovazione, la dimensione invece alla quale dovrebbe votarsi senza incertezze un Paese sul quale hanno investito, e guarda caso soprattutto al Sud, i colossi mondiali dell’Ict, Apple in testa. È come se nessuno se ne fosse accorto, un po’ come accade da sempre a proposito del Mediterraneo e del suo immenso valore economico e inclusivo. Per noi il grande mare evoca ancora soprattutto l’emergenza dei migranti, per tutti gli altri competitors mondiali, cinesi in testa, la nuova frontiera della crescita commerciale. Chi sbaglia?
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