Province, la legge incassa la fiducia al Senato ma è tensione nella maggioranza

L'aula del Senato
di Claudio Marincola
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Giovedì 27 Marzo 2014, 09:22 - Ultimo aggiornamento: 28 Marzo, 10:16
In attesa di cancellare se stesso, il Senato inizia a dire addio alle Province. Il disegno di legge Delrio, modificato e corretto dal governo, ha incassato ieri la fiducia con 160 sì, 133 no e nessun astenuto. Un risultato sospirato e sofferto se si considera la lunga sosta in commissione Affari Costituzionali e il percorso accidentato in Aula. Renzi alla fine può tirare un sospiro di sollievo e il sottosegretario Graziano Delrio, padre del provvedimento, parlare «di un grande passo per un Paese più semplice e capace di dare risposte a famiglie, lavoratori e imprese». Tutto è bene quel che finisce bene ma l’esecutivo ha rischiato.





Per la statistica: con il voto di ieri il governo ha ottenuto la sua quarta fiducia, sia pure più e stentata delle altre volte (il 25 febbraio, giorno dell’insediamento ottenne 169 voti). Se l'esecutivo non avesse deciso ieri mattina di ricorrere in extremis alla fiducia il testo - che di fatto trasforma le province in «città metropolitane», assemblee di sindaci non retribuiti - difficilmente sarebbe stato approvato. Martedì in commissione la maggioranza era andata sotto ben due volte. E la pregiudiziale di costituzionalità presentata dal M5S era stata respinta in Aula con soli 4 voti di scarto.





LA LEGA CONTRO

La richiesta di sospendere i lavori, avanzata in apertura di seduta dal sottosegretario Bressa per consentire ai tecnici di scrivere il maxiemendamento e al ministro delle Riforme Boschi di porre la fiducia è stata è stata accolta sempre con solo 4 voti di scarto. Contro il provvedimento si è battuta con vigore la Lega. Roberto Calderoli ha accusato il governo di «voler sbandierare la bandierina del taglio delle province in vista del voto per le Europee». I senatori M5S, molti con un "no" scritto sulla mano, hanno accusato il governo di utilizzare la fiducia come ricatto per far passare un ddl che in realtà «lascia tutto come prima». Nessuno si aspettava che Forza Italia dai banchi dell’opposizione salisse sulle barricate. E infatti le assenze di tanti senatori azzurri testimoniano che la questione non era in cima alle loro preoccupazione. Divisi i popolari, «così non si risparmiano i costi» ma alla fine si è quasi dissolto anche il dissenso dei centristi. L'unico che ha puntato i piedi è stato Maurizio Rossi, mentre Tito Di Maggio, dopo aver fatto fuoco e fiamme contro il testo ha preferito lasciare l'Aula.





PROPAGANDA

Di «gigantesca norma transitoria», parla il capogruppo di Sel Loeredana De Petris, riferimento al via libera all'iter del ddl costituzionale, via libera che ancora non c’è. La fretta con la quale alla fine si è deciso di far passare il provvedimento dimostra che «è solo propaganda», sostiene il leghista Calderoli. È passato il messaggio che senza il voto di ieri a maggio si sarebbe tornati alle urne anche per le Province. In realtà, leggendo le leggi in vigore - come quella di Stabilità - a maggio non si sarebbe andati a votare per nessuna provincia. Lo confermano fonti governative e lo si evince anche dal decreto ministeriale del 20/3/2014 che convoca le elezioni solo per i consigli comunali e circoscrizionali. «Di fatto non si elimina nessun ente», incalza De Petris «ma se ne aggiungono». «Si aumenta la burocrazia e si triplicano i costi», ribatte Lucio Malan (FI). «Renzi deve rendersi conto che al Senato i numeri sono proprio altri rispetto alla Camera: qui la maggioranza è quello che è...», allarga le braccia Francesco Russo (Pd). Se quelle di ieri dovevano essere le prove generali per testare l’Aula, chissà cosa accadrà con la riforma del Titolo V.
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