Se lo straniero in cattedra è dannoso

di Alessandro Campi
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Sabato 22 Ottobre 2016, 00:05
«Non dite a mia madre che faccio il professore universitario. Lei mi crede pianista in un bordello». Questa celebre battuta - mutuata dal pubblicitario francese Jacques Séguéla - ben si addice a chi oggi pretenda di difendere pubblicamente il buon nome dell’accademia italiana. Da quando Raffaele Cantone ha detto che nei nostri atenei dominano la corruzione e il familismo e che queste ultime sono la ragione vera della cosiddetta “fuga dei cervelli”, l’opinione pubblica, bestia sempre affamata, ha smesso di avere dubbi.

Per l’opinione pubblica questi professori universitari - spesso incompetenti e fannulloni - vanno sanzionati e messi in riga. Detto, fatto. Visto che si cooptano tra di loro in modo opaco, seguendo non il merito ma l’amicizia personale e i vincoli parentali, ci vuole allora un sistema di selezione che metta fine a questo scandalo e riporti nelle aule competenza e correttezza. La soluzione trovata dal governo Renzi sono le 500 cattedre intestate al premio Nobel Giulio Natta: una procedura straordinaria di reclutamento, inserita nella Legge di Stabilità per il 2016, che prevede la nomina senza concorso, ad opera di 25 Commissioni speciali, di professori universitari, italiani o stranieri, che avranno uno stipendio maggiorato e potranno liberamente trasferirsi in tutte le Università d’Italia. Insomma, super-professori per una super-università.

Sennonché la notizia di questo progetto e la successiva lettura della bozza di regolamento attuativo hanno scatenato la protesta veemente di una parte significativa del corpo docente italiano. Circolano appelli che hanno già raccolto migliaia di firme e documenti ufficiali di associazioni scientifiche che chiedono al governo di recedere dalla sua iniziativa. Secondo Marco Gervasoni (sul “Messaggero” di ieri) alla base della rivolta ci sarebbe soprattutto la decisione di far presiedere le Commissioni da uno studioso straniero la cui nomina avverrebbe ad opera del Capo del governo. Ma anche gli altri due membri dei collegi giudicanti, scelti dallo stesso Presidente all’interno di una rosa di nomi fornita dall’Anvur, sarebbero nei fatti governativi, visto che i membri dell’Anvur sono a loro volta di estrazione ministeriale. Il rischio, evidentemente, è quello di affidare il reclutamento universitario alla discrezionalità della maggioranza politica del momento.

Secondo Gervasoni il pericolo di una dipendenza della ricerca universitaria dalla politica è un allarme esagerato (degli intellettuali il potere oggi non sa che farsene, diversamente dal passato), frutto di un eccesso di spirito corporativo, che sembra anche nascondere la paura di doversi confrontare con la concorrenza proveniente da altri contesti scientifici. Un po’ come è successo nel settore dei beni culturali quando i nostri sovrintendenti hanno cercato (peraltro inutilmente) di fare barriera contro l’arrivo di direttori di museo stranieri.

Ma le cose non stanno così. Lasciamo perdere il provincialismo di dover affidare ad osservatori internazionali (lautamente pagati) la certificazione della nostra qualità intellettuale e della nostra stessa probità. E lasciamo anche perdere la questione dell’indipendenza dell’Università dalla politica: in una realtà estranea al liberalismo come quella italiana, il tema dell’autonomia dei corpi sociali riguardo il potere pubblico è di quelli che non interessano nessuno. I dubbi che il progetto del governo solleva sono anche altri.

Per cominciare, non è vero che queste cattedre vengono istituite con fondi aggiuntivi. I 75 milioni previsti come costo a regime per le 500 nuove cattedre rappresentano in realtà uno storno dal già risicato fondo di finanziamento ordinario degli atenei. Secondo una tecnica molto italiana, si spoglia un santo per vestirne un altro.
Si tratta poi di un meccanismo di selezione che, anche per la tempistica con cui è stato presentato, delegittima l’intero sistema universitario e le sue regole di funzionamento. Proprio mentre sta per partire, dopo più di tre anni di attesa, la complessa macchina delle abilitazioni scientifiche nazionali, si è infatti annunciata la creazione di una procedura straordinaria di reclutamento parallela che si tende a presentare come più rigorosa e utile della prima. Se non è una casualità maledetta, allora è una malizia ben orchestrata.

Si concede inoltre ai super-professori la possibilità, dopo tre anni dalla loro nomina, di spostarsi da un’università all’altra a loro piacimento, portandosi dietro stipendio e insegnamento. Facile immaginare verso quali sedi si concentreranno i trasferimenti: quelle del Nord dove circolano più risorse private. Se l’obiettivo dichiarato è quello di rafforzare l’università nel suo complesso, immettendovi energie fresche, si rischia invece di creare piccole oasi di eccellenza scientifica, territorialmente ben localizzate, in un deserto di strutture sempre più prive di risorse e di uomini. Ma forse è proprio questo che si vuole: un sistema universitario a doppia velocità.

È inoltre un provvedimento contraddittorio rispetto agli obiettivi che si dice di voler perseguire. Se il problema è arrestare la fuga verso l’estero dei nostri laureati e dottorati più brillanti bisognava mettere nella Legge di Stabilità molte più risorse per i posti da ricercatore, cosa che non si è fatta, invece di istituire cattedre da professore “per chiara fama” che certo non andranno agli studiosi più giovani per quanto meritevoli.

C’è infine alla base di questa misura una premessa sbagliata: lo scarso valore scientifico, rispetto agli standard internazionali, dei nostri professori. Ma gli studi comparativi dicono il contrario. La produttività degli studiosi e docenti italiani è maggiore (anche se molti sono convinti del contrario) di quella della gran parte dei loro colleghi di altri Paesi. Così come è molto alta la qualità intrinseca e l’incidenza delle loro ricerche.

La verità, difficile evidentemente da accettare per il mondo politico, è che gli atenei italiani (al netto delle sacche di inefficienza e clientelismo in essi presenti e che al dunque sono quelle fisiologicamente rilevabili di ogni altro settore d’attività) soffrono non dello scarso valore dei suoi membri, ma di una drammatica e persistente carenza di risorse. Lo dicono i numeri: dal 2009 ad oggi la spesa pubblica per l’istruzione terziaria in Italia è scesa di oltre un miliardo di euro, mentre negli altri Paesi Ocse è rimasta stabile o addirittura è cresciuta. Se questo è lo stato della nostra università, non saranno 500 super-professori a salvarla.

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