TUTTO LEGATO AL CONTRATTO
Detta così, tutto sarebbe risolto. Tra qualche giorno, firmato il “contratto di coalizione” (se mai verrà firmato), Letta potrebbe procedere al rimpasto, “liberando” Saccomanni e licenziando gli altri ministri sgraditi al segretario del Pd. Ma così semplice non è. Anzi. Renzi non ha alcuna intenzione di mettere la faccia e la propria firma sul governo, senza avere prima visto nero su bianco «un patto molto ambizioso». Con il job act, le unioni civili, la riscrittura della Bossi-Fini, lo jus soli, ecc. E senza anche avere ottenuto un accordo sulla legge elettorale. «Cercano di tirarmi dentro. Ma io la faccia ce la metto solo se si fa bene e sul serio».
L’insofferenza per quelli che Renzi considera i passi falsi del ministro dell’Economia è esplicita: «A me va bene tutto, ma le figuracce gratis anche no». Va da sé che Saccomanni resterà al suo posto se il governo dovesse vivacchiare. Se ne potrebbe andare, invece, se avverrà lo “scatto” invocato da Renzi. Il condizionale è d’obbligo: il ministro dell’Economia è sostenuto da Giorgio Napolitano e intorno a lui c’è da sempre lo scudo del presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi. Saccomanni, infatti, è considerato dalle cancellerie europee il garante della tenuta dei conti pubblici.
Anche Letta è dalla parte del superministro. Ma il premier non ha apprezzato che il Tesoro abbia fatto uscire dati sulle spese di palazzo Chigi. E, giorno dopo giorno, Letta è sempre più consapevole che, se davvero verrà siglato di contratto di coalizione, qualcosa nella squadra dovrà cambiare. «Dopo aver deciso il programma fino al 2015, si potrà procedere a un riassetto. Ma per ora questo riassetto riguarda soltanto le posizioni rimaste scoperte», dicono nello staff del premier. Dove la chiave è in quel “per ora”.
INSOFFERENZA PER I TECNICI
Anche tra i lettiani di stretta osservanza si fa strada l’idea che Saccomanni potrebbe lasciare. Perché, in quanto tecnico, il superministro non avrebbe «la capacità di lettura delle conseguenze politiche di alcuni atti, e Letta è costretto spesso a correre ai ripari». E perché se la nomina di Saccomanni è stata «elemento di equilibrio indispensabile al momento della nascita delle larghe intese», ora che sta prendendo avvio la “fase due” e il governo sarà inevitabilmente a trazione Pd, «per forza di cose Renzi vorrà dare una sua impronta all’economia».
Vero? Stravero. Perché secondo il segretario democratico, Saccomanni è genuflesso al rigore di Bruxelles, a quel tre per cento nel rapporto deficit-Pil che lui vorrebbe rivedere.
E perché ha ragione il deputato lettiano: se verrà siglato un patto «davvero ambizioso, in grado di incidere e far bene al Paese», Renzi vorrà qualcuno del Pd nel ponte di comando del dicastero di via XX Settembre. E non solo lì. A sentire gli stretti collaboratori del segretario democratico, se scatterà davvero il “nuovo inizio”, nel tritacarne potrebbero finire anche Enrico Giovannini (Lavoro), che osteggia alcune proposte contenute nel job act. Più Flavio Zanonato (Sviluppo) e Anna Maria Cancellieri (Giustizia) e qualcuno dei cinque ministri del Nuovo centrodestra. «Abbiamo quasi dieci volte il numero dei loro parlamentari», dice un deputato vicino a Renzi, «ma il Pd non ha dicasteri di prima fascia, visto che Difesa, Esteri, Interni, Giustizia, Economia... sono guidati da tecnici o esponenti degli altri partitini». Il ritorno del manuale Cencelli? «Balle! Chi ha i voti e dunque la maggiore responsabilità, deve pur poter contare su ministri di propria fiducia».
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