Sconti fiscali/ Regali ai colossi e i contribuenti pagano il conto

di Osvaldo De Paolini
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Mercoledì 1 Ottobre 2014, 00:28 - Ultimo aggiornamento: 2 Ottobre, 00:33
La Commissione Ue ha pubblicato la decisione con cui chiede a Irlanda e Lussemburgo maggiori informazioni sui regimi fiscali considerati agevolati che hanno applicato rispettivamente ad Apple e a Fiat Finance. Per Bruxelles tali esenzioni «non rispettano il principio di concorrenza» e quindi sono assimilabili ad aiuti di Stato. In breve, qualora l’ipotesi accusatoria fosse provata, «tutti gli aiuti illegali potranno essere oggetto di recupero» ovvero di restituzione.



La vicenda è nota: allo scopo di attrarre investimenti, i governi irlandese e lussemburghese, ma soprattutto il primo, offrono da tempo un regime fiscale molto agevolato alle grandi società. Sicché nel corso degli anni si è assistito a un progressivo spostamento delle sedi fiscali di non poche multinazionali che, nel rivendicare il diritto di stabilità e delle migliori condizioni operative, con alchimie più o meno legittime hanno fatto affluire - e fanno tuttora affluire - gran parte dei profitti miliardari alle sedi di Dublino, Cork (l’altra grande città irlandese) o in Lussemburgo. La convenienza è evidente: nel caso irlandese le aliquote per una certa tipologia di società vanno dal 2% al 12,5% a fronte di una tassazione media dei profitti in Occidente che va dal 30-35% fino alle vette italiane del 60-70%.



Ora, da sempre i grandi gruppi industriali cercano di minimizzare il peso del fisco: la Fiat guidata da Sergio Marchionne ci ha rappresentato di recente un esempio che fa tuttora discutere. Sono però le società tecnologiche nate da Internet - quali Apple, Google, Amazon, Yahoo, YouTube, Skype e Facebook - le meglio attrezzate nella corsa ad avvantaggiarsi di codici fiscali scritti per l’era industriale ma inadatti al tempo dell’economia digitale. E infatti non hanno perso tempo a delocalizzare la propria sede fiscale.



Basti osservare che sui ricchi profitti generati dai 33 miliardi di ricavi realizzati extra Usa da Google, il peso del fisco non supera il 9%. Apple, addirittura, che pure realizza nel mondo 108 miliardi di ricavi, versa nelle casse dell’erario irlandese solo il 3,7% degli utili miliardari (peraltro solo parzialmente comunicati). Per non dire del caso italiano: pochi mesi fa la Gdf denunciò che a fronte di svariati miliardi di ricavi realizzati in Italia, le principali società Internet versano nelle casse del fisco poche decine di milioni grazie a un gioco di fatture emesse sul filo della normativa europea, che però sono una chiara manovra elusiva.



Tutto ciò, naturalmente, in danno dei Paesi che hanno consentito la nascita e favorito lo sviluppo di quelle realtà aziendali; e dove i cittadini e le pmi con minori mezzi legali sono chiamati a pagare fior di tasse per sostenere il bilancio pubblico. Persino in un Paese liberale come gli Stati Uniti questa anomalia non è passata inosservata, tanto che nel maggio del 2013 una Commissione d'inchiesta del Congresso ha accusato proprio Apple di non creare occupazione, utilizzando le filiali come scatole vuote al fine di cercare indebiti vantaggi fiscali.



Ed era fatale che prima o poi casi come quello di Google, Apple o Yahoo avrebbero fatto alzare l'attenzione a livello regolatorio. Sicché i tentativi delle multinazionali di eludere o comunque ridurre al minimo le imposizioni fiscali, sottraendo fondi alle comunità di appartenenza, a metà dello scorso anno hanno trovato un primo tentativo organico di contromisura.



Il piano, preparato per il G20 di Mosca sotto il titolo di “Action plan on base erosion and profit shifting”, reca la firma dell'Ocse. Le azioni proposte, che dovranno trovare attuazione entro la fine del 2015 con una precisa tabella di marcia, affrontano anzitutto i problemi fiscali che derivano dallo sviluppo dell’economia digitale, ma non escludono una stretta sugli strumenti ibridi di finanziamento e su altre alchimie contabili che rischiano impropriamente di agevolarsi di doppie deduzioni in differenti regimi fiscali. L’azione è dunque a largo spettro.



Tradotto in norme precise, il piano elaborato dall’Ocse porterà probabilmente a sostanziali modifiche nelle convenzioni sulle tassazioni ma anche a raccomandazioni su come strutturare il fisco domestico gettando le basi per un importante punto di svolta nelle regole internazionali della tassazione.

In altre parole, trattamenti fiscali così apertamente contrari al principio della concorrenza e così gravemente dannosi per i contribuenti, chiamati a colmare le voragini miliardarie provocate dalla fuga fiscale delle grandi conglomerate, potrebbero avere fine o almeno risultare attenuati entro pochi anni.



Naturalmente, perché ciò avvenga serve che i singoli Stati condividano le finalità del cambiamento. E non è detto che, trattandosi di società strategiche per finalità di governo come alcune di quelle nate da Internet (a cominciare da Google), ciò sia un’impresa pacifica.