Riforma delle Popolari, decreto non urgente ma indispensabile

di Osvaldo De Paolini
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Mercoledì 4 Febbraio 2015, 23:11 - Ultimo aggiornamento: 5 Febbraio, 00:18
La formula del decreto legge crea senza dubbio qualche perplessità, visto che mancano i criteri d’urgenza necessari a giustificarla.



Vale però domandarsi quanto tempo ancora l’Italia avrebbe dovuto attendere per vedere la riforma delle Banche Popolari se il governo non avesse imboccato la strada più diretta. Sono infatti almeno vent’anni che la Banca d’Italia preme sulle grandi Popolari affinché venga eliminato o fortemente modificato il meccanismo del voto capitario nelle assemblee dei soci, dove domina la regola «una testa un voto» indipendentemente dal numero di azioni possedute. E sono vent’anni che regolarmente, per un motivo o per l’altro, tutte le proposte di riforma finiscono nel cassetto. Era dunque inevitabile che prima o poi il mutamento sarebbe stato imposto d’autorità. Anzi, varrebbe chiedersi perché sia stato tollerato così a lungo che imprese bancarie organizzate in forma cooperativa godessero - al pari delle società per azioni che hanno ben altri obblighi di governance - dei diritti e dei privilegi legati alla quotazione ufficiale.



Ciò non risponde ad alcun criterio logico: quando una società, soprattutto se si tratta di una banca, chiede la quotazione presso i mercati regolamentati allo scopo di allargare al massimo la platea di potenziali investitori-finanziatori, essa deve poter offrire a quegli investitori i diritti propri che il mercato pretende. Che sono i diritti di voto e di partecipazione in assemblea in maniera proporzionale al rischio dell'investimento. Correggere l’anomalia delle Popolari quotate è dunque doveroso, in considerazione anche dell’uso spregiudicato che si è fatto del voto capitario per nominare organi amministrativi che rispondevano a folle di soci sì amplissime, e però con quote di partecipazione al capitale modestissime.



Emblematico il caso della Popolare di Milano, da sempre governata dai dipendenti in virtù di una partecipazione complessiva che non ha mai superato il 3-4%, sicché essi decidevano anche per il 96-97% del capitale. Si possono facilmente immaginare le distorsioni che questa anomalia ha provocato negli anni, dalla scarsa trasparenza con la quale venivano gestite le promozioni interne (guidate più dall’appartenenza a un determinato gruppo di pressione che dalla reale capacità professionale) fino al rigetto di piani di sviluppo industriale nel timore che la spinta del mercato potesse modificare gli equilibri interni così cristallizzati. Per chi voglia capire di più, Via Nazionale custodisce pile di faldoni nei quali sono descritti gli effetti nocivi dell’anomalia - unica in Europa - riscontrati durante le numerose ispezioni condotte dagli ispettori della Vigilanza in quegli uffici.



È ben vero che le Popolari per decenni hanno svolto un ruolo fondamentale sul territorio, grazie alla loro presenza capillare e allo spiccato ”localismo” che ha consentito di far nascere tante piccole e medie imprese. Ed è altrettanto vero che durante la recente tempesta finanziaria in più di un momento si sono rivelate, insieme alle piccole Banche di credito cooperativo, l’unico bastione cui potevano aggrapparsi le pmi per frenare la feroce ventata di credit crunch.



Ma se ciò è vero per i piccoli e medi istituti, lo stesso non si può dire per le grandi Popolari quotate che, salvo alcune lodevoli eccezioni, hanno mostrato comportamenti conservativi pressoché identici a quelli delle grandi banche commerciali. In altre parole, la mission originale di solidarietà cooperativa alla base della nascita delle Popolari, col tempo e con la quotazione in Borsa è andata svanendo, assorbita dalle nuove necessità di mercato che privilegiano altri valori. Sicché il voto capitario, che pure era in sintonia perfetta con lo spirito fondativo, oggi appare - ad essere benevoli - un anacronismo. E ciò vale anche per le varianti (modello ibrido o formule analoghe) che Assopopolari si prepara a proporre in alternativa alla cancellazione tout court del criterio «una testa un voto».



Resta il dubbio se la riforma proposta dal governo debba valere anche per le Popolari non quotate il cui attivo è superiore a 8 miliardi. In questo caso qualche riflessione andrebbe fatta, visto che il motivo non può essere semplicemente «perché hanno combinato pasticci», come sostiene il premier Renzi. Di pasticci combinati dalle banche sono piene le cronache locali come quelle nazionali (e non solo in Italia): non per questo va modificata la Legge Bancaria. Vi sono altri modi per intervenire. Così come non è assolutamente vero che, cambiando forma giuridica alle Popolari, aumenterà l’erogazione di credito a imprese e famiglie. Questa è pura propaganda o modesta conoscenza dell’idraulica del credito in un sistema.



Vero è invece che è necessario intervenire anche sulle Popolari non quotate per mettere ordine, oltre che nei criteri di ammissione al libro soci (un rito tribale da rimuovere ovunque si solleciti il pubblico risparmio, onde consentire all’azionista di esercitare appieno i suoi diritti), nella circolazione dei loro titoli, oggi scambiati in mercati non regolamentati, a prezzi decisamente più elevati rispetto al loro reale valore e perciò talvolta fonte di grandi delusioni e persino di raggiri per i risparmiatori-investitori.



Insomma, da qualunque parte la si veda la questione delle Popolari è di estrema attualità e d’interesse pubblico: bene ha fatto perciò il governo a sollevare il tema con l’obiettivo di risolverlo una volta per tutte.