Assedio a Renzi, strappo di Prodi. E lui: ho vinto le primarie

Renzi (LaPresse)
di Nino Bertoloni Meli
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Mercoledì 28 Giugno 2017, 07:51 - Ultimo aggiornamento: 15:37

La rasoiata arriva a metà pomeriggio, e porta la firma di Dario Franceschini. «Bastano questi numeri per capire che qualcosa non ha funzionato?», scrive il ministro nonché ex segretario dem per una breve stagione. Seguono le percentuali di voto al Pd in alcune città della recente tornata amministrativa (Genova, 19,8; Parma 14,9; Verona, 15,9; L'Aquila 17,2), dati paragonati impietosamente ai risultati trionfanti di altre stagioni, una caduta a picco inarrestabile. «Il Pd è nato per unire, non per dividere», conclude duro Franceschini, anticipando il refrain che altri poi riprenderanno, da Zingaretti a Orlando passando per Cuperlo.

LE BORDATE
In mattinata, altra cannonata al quartier generale, una palla incatenata lanciata nientemeno che dal fondatore dell'Ulivo e del Pd, Romano Prodi: «Vedo che mi si invita a spostare la tenda un po' più in là. Lo farò senza difficoltà, la mia tenda è molto leggera, intanto l'ho rimessa nello zaino». Ma non è finita. Alla lettura dei giornali in mattinata, che Matteo Renzi commenta alle 9 da Unità.tv, il leader del Pd si era trovato sul tavolo una intervista di Walter Veltroni che suonava come altra presa di distanza, con passaggi pesanti tipo «il Pd non ha più identità, mi sembra la Margherita», il tutto condito con apprezzamenti negativi sulla vocazione maggioritaria «che non è autosufficienza» (tema a suo tempo rinfacciato allo stesso Veltroni da Bersani e D'Alema).

Prodi. Veltroni. Franceschini. I padri fondatori all'attacco, prendono le distanze dalla propria creatura, il Pd, e mettono sotto assedio il loro successore Matteo, lo disconoscono, non lo dicono espressamente ma lo invitano di fatto a farsi da parte. Nel Pd è rivolta contro Renzi. In altri tempi, e con altre regole, si sarebbe detto che il segretario non ha più la maggioranza, visto che franceschiniani e veltroniani, con Renzi fin dal primo momento, ora ne prendono le distanze.

LE TENSIONI
Ma nel Pd adesso il leader è eletto con le primarie, e non può essere disarcionato né sfiduciato da colpi di palazzo o da pronunciamenti. Al massimo, può essere convinto a sloggiare, a dimettersi sua sponte. In serata arriva per Renzi un pre-benservito, confezionato da Andrea Orlando che riunisce la corrente e al termine detta le condizioni della resa: bisogna fare comunque una coalizione «anche se si va a votare con il proporzionale»; ci vuole una legge elettorale con il premio alla suddetta coalizione; quindi, il benservito: «Renzi faccia il federatore, come sta dimostrando di saper fare (sarcastico), ma non potrà essere candidato premier».

«Un dibattito artificiale», l'ha definito e derubricato Renzi, secondo il quale «tutto questo discorrere di coalizioni addormenta gli elettori», di più, «favorisce le divisioni e quindi la vittoria degli altri, della destra, è stato sempre così».

Il leader ha poi avvertito tutti i nemici: «Ho vinto le primarie, ci confronteremo con tutti e tireremo fuori un progetto serio». Gli assediati non sono da meno, intendono, come si dice, vendere cara la pelle. La parola congiura comincia a circolare, qualcuno della cerchia renziana parla addirittura di «25 luglio» indicando più d'uno tra i possibili autori di un «ordine del giorno Grandi». «Vogliono cambiare segretario a due mesi dal congresso? Sarebbe la rivolta del nostro popolo, dai e dai otterranno solo di far vincere Grillo», la dichiarazione di resistenza di Matteo Orfini, il presidente dem.

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