La debolezza del Pd può frenare il cammino del leader

di Giovanni Sabbatucci
4 Minuti di Lettura
Mercoledì 30 Dicembre 2015, 00:12
Nella sua conferenza stampa di fine anno - la seconda dopo la sua ascesa al governo nel febbraio 2014 - Matteo Renzi ha usato, com’era prevedibile, una chiave ottimistica ed entusiastica.

Quella chiave che da sempre contraddistingue il suo armamentario retorico. Ha ricordato con evidente soddisfazione le riforme già condotte in porto - dal Jobs Act alla “buona scuola”, alla nuova legge elettorale, definita con qualche enfasi «un capolavoro parlamentare» - oppure in dirittura d’arrivo, come quella del Senato, al cui successo ha ribadito di voler legare il destino delle sua stessa esperienza di governo. Ne ha annunciate di nuove, anche su un tema delicatissimo come quello delle pensioni. Ha evidenziato i dati economici positivi rispetto a un anno fa in termini di Pil e di occupazione. Ha sottolineato ancora una volta l’opera svolta nell’accoglienza ai migranti e ha rivendicato all’Italia un ruolo accresciuto sia nei rapporti con l’Unione Europea sia nell’approccio alle più acute crisi internazionali (non esclusa l’emergenza ambientale).

Nulla di nuovo, si dirà. Tutti i capi di governo - e Renzi in questo è maestro - tendono a valorizzare, in sede di bilanci, la qualità e la sostanza del proprio operato. Ma questa volta è difficile negare che la rivendicazione poggi su un solido fondamento fattuale. Era dai tempi del Craxi di metà anni Ottanta, o addirittura del Fanfani dei primi Sessanta, che un esecutivo repubblicano non riusciva a portare a casa un pacchetto di riforme così significativo: riforme che nel merito potranno piacere o non piacere, ma che quasi tutti fino a ieri erano d’accordo nel considerare indispensabili. È naturale che il presidente del Consiglio ne rivendichi il valore. Ed è apprezzabile che lo faccia senza forzare i toni, senza abusare delle formule un po’ guascone («ci faremo rispettare», «non ce n’è per nessuno») cui volentieri indulge in certe sue uscite polemiche: significativo in questo senso l’accenno agli «splendidi rapporti» di collaborazione intrattenuti con Angela Merkel. Un intervento, dunque, da leader forte e consapevole della sua forza. Una modalità di argomentazione che qualcuno potrà trovare discutibile, ma certo è di qualità di gran lunga superiore a quella esibita da chi attribuisce al governo la responsabilità dei crack delle piccole banche o addirittura (lo ha fatto Beppe Grillo) la colpa di un picco di mortalità che nemmeno i demografi sanno spiegare. Eppure né l’efficienza operativa né la qualità della comunicazione sembrano oggi mettere al riparo il partito del presidente del Consiglio dalla concorrenza al ribasso degli avversari e del loro vario populismo. Renzi, nel momento in cui elenca i suoi successi, può anche far ricorso a una delle sue metafore sportive per proclamare che “politica batte populismo quattro a zero”.

Ma i sondaggi, per quel che valgono, continuano a parlare di una Lega in crescita e di un Movimento cinque stelle pericolosamente vicino al Pd, e addirittura capace di minacciarne il primato in un futuro ballottaggio. Il punto dolente allora sta proprio nel partito. Evidentemente Renzi non è riuscito a trasmettere alla forza politica di cui è il leader il carisma e la capacità di persuasione di cui lui stesso sembra ancora godere. E’ un problema che, anche in passato, ha appesantito le ali di parecchi capi-partito: potremmo citare ancora una volta Fanfani, più volte scaricato dai suoi colleghi democristiani, e Craxi, che non riuscì mai a far raggiungere al Psi la modesta soglia del 15 per cento. I numeri di Renzi, nel partito e nell’elettorato, sono ben più rassicuranti almeno per ora. Ma il Pd resta un organismo debole, privo di un gruppo dirigente forte e sperimentato (molti fra i vecchi dirigenti di primo piano si collocano ora all’opposizione interna) e costretto a far leva su un ristretto circolo di fedelissimi del segretario.

A livello locale, il quadro medio è di qualità non eccelsa, difetta di radicamento territoriale e si trova in qualche caso coinvolto in episodi di malcostume o addirittura di corruzione: il che apre comodi spazi alla propaganda dei neo-qualunquisti di ogni specie e gradazione (quelli che accomunano l’intero ceto politico in un unico giudizio deprecatorio); e fa temere ai partiti “tradizionali” (ovvero tutti gli altri) risultati non brillanti nelle amministrative della prossima primavera. Per questo Renzi, come ha ribadito ancora nella conferenza stampa di ieri, ha deciso di puntare tutte le sue carte su una competizione speciale come il referendum confermativo della riforma costituzionale: una competizione secca su un tema non sgradito all’opinione popolare (si tratta in fondo di operare un robusto taglio numerico sulla rappresentanza parlamentare); un tema trasversale rispetto agli schieramenti partitici e che ben si presta a far emergere la figura del leader. È una sfida che il presidente del Consiglio appare oggi in grado di affrontare senza troppi timori. Ma la vittoria potrebbe risultare effimera, nella prospettiva delle future elezioni politiche (saranno le prime a fornire un verdetto popolare su Renzi e sul suo governo), se non si accompagnasse a un’azione efficace di recupero e di rilancio del Partito democratico e della stessa dignità della politica, anche e soprattutto a livello locale.
© RIPRODUZIONE RISERVATA