Pensioni, attenzione a smontare la Fornero: modifiche possibili ma solo a piccoli passi

di Marco Leonardi
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Mercoledì 21 Marzo 2018, 00:02
*Consigliere economico del presidente del Consiglio

A novembre 2017 il governo guidato da Paolo Gentiloni ha sottoscritto un’intesa con i sindacati (Cisl e Uil) sul tema delle pensioni. In virtù di tale accordo sarà istituita la Commissione di studio che avrà il compito di elaborare un confronto internazionale dei costi della previdenza e dell’assistenza. È bene chiarire quale sia l’obiettivo di questo studio.

L’obiettivo di questo studio non è quello di dimostrare, come molti sostengono, che la spesa relativa alle pensioni ammonta a 11% del Pil anziché al 16%, tesi sostenuta da chi pensa che, scorporando i costi dell’assistenza da quelli della previdenza si possa aumentare la spesa destinata alle misure previdenziali. Peraltro tutti i paesi europei, come attestato dalle fonti Eurostat, hanno dei sistemi di classificazione equivalenti al nostro. Sono diversi i motivi per i quali il nostro Paese non si può permettere di aumentare indiscriminatamente le spese per le misure previdenziali. Vediamo i tre più importanti.

Innanzitutto la questione demografica: le previsioni elaborate dal gruppo di lavoro europeo, di cui fa parte anche la Ragioneria Generale dello Stato, mostrano che il nostro andamento demografico combinato con la (scarsa) crescita del Pil, avranno effetti negativi sulla sostenibilità della spesa previdenziale del nostro Paese. Se fino ad oggi si prevedeva una spesa previdenziale con un incidenza massima del 16% del Pil nel 2030, con le nuove previsioni si arriva fino al 18% nel 2040. Anche considerando i soli dati demografici è possibile osservare come il numero di pensioni in rapporto al numero di occupati è destinato a peggiorare, infatti il numero di pensioni per occupato aumenterà dall’attuale 80% al 100% del 2045. Il secondo motivo è rappresentato dal fatto che molte delle spese classificate come “assistenza” sono in realtà delle spese incomprimibili che riguardano direttamente le pensioni. Facciamo un esempio: le integrazioni al minimo o l’Ape sociale sono classificate come assistenza, ma di fatto sono spese relative alle pensioni. Inoltre, bisogna fare attenzione agli effetti redistributivi indotti: l’indice Gini (che misura la disuguaglianza della distribuzione del reddito) è in Italia al 49.4 percento e si riduce al 33.1 percento in seguito ai trasferimenti pubblici. L’ottanta percento di questa riduzione dell’indice di diseguaglianza è dovuto proprio all’effetto distributivo della spesa pensionistica e assistenziale, quindi ogni taglio all’assistenza avrebbe anche degli effetti redistributivi molto significativi. 

Il terzo motivo è che la spesa sociale totale italiana, comprensiva di previdenza, assistenza e sanità è pari al 29% del Pil. Tale valore complessivo si attesta sulla media internazionale ma la sua distribuzione è molto spostata verso le persone di età avanzata, si può rilevare come la spesa sociale per gli under 40 sia solo il 4% del totale se si tiene conto della spesa per pensioni mentre sale (solo) al 37% del totale se non si tiene conto delle pensioni. Espandere ulteriormente la spesa previdenziale avrebbe l’effetto di spostare ulteriormente il peso della spesa sociale verso le classi più anziane, andando a drenare risorse ai giovani che, in questi anni di crisi, hanno subito delle perdite relative, in termini di reddito, molto superiori rispetto a quelle degli anziani.

Per quanto riguarda le pensioni l’unica strada che si può realisticamente intraprendere è la continuazione della strategia portata avanti dai governi Renzi-Gentiloni, con un graduale aggiustamento nel rispetto dei conti pubblici. A tal fine bisogna stabilire delle priorità che devono essere legate alla difesa dei diritti delle categorie più penalizzate. L’Italia ha tradizionalmente avuto un basso tasso di occupazione femminile. Per le donne che hanno accumulato pochi contributi e che risultano penalizzate dall’aumento dell’età pensionabile fissato dalla riforma Fornero, la soluzione può essere un’opzione donna a partire da 63 anni (a fronte del ricalcolo della pensione con il sistema contributivo). Segnalo invece che la proposta di pensionamento con 41 anni di contributi – comune a molti partiti- è particolarmente sfavorevole per le donne, che spesso non arrivano a 41 anni di contributi. 

Altre due criticità del nostro sistema pensionistico sono la pensione di garanzia e la non autosufficienza. La prima, che è rivolta ai molti giovani che hanno (e che sempre più avranno) carriere discontinue, è un’integrazione al minimo per il sistema contributivo puro con l’obiettivo di garantire una pensione minima. Per i casi di non autosufficienza è necessario raddoppiare le indennità di accompagnamento per i casi più gravi; lo sforzo finanziario ingente, potrebbe essere coperto attraverso un sistema a ripartizione, basato su un onere aggiuntivo (dello 0,5%) sui contributi pagati dai nuovi contratti che avrebbero contemporaneamente un taglio del costo del lavoro di 4 punti percentuali in 4 anni.
Il fatto che due degli interventi più importanti riguardino l’assistenza, e non la previdenza, dovrebbe essere utile per ricordare che la riclassificazione delle spese tra assistenza e previdenza debba sempre essere utilizzata a fini conoscitivi e non meramente strumentali.

 
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