Giustizia, la stretta dei renziani: avvisi di garanzia non più divulgabili

Giustizia, la stretta dei renziani: avvisi di garanzia non più divulgabili
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Domenica 12 Marzo 2017, 09:43 - Ultimo aggiornamento: 10:39

dal nostro inviato Mario Ajello
TORINO Al Lingotto c'è Emma Bonino. E se avesse parlato di giustizia, ma non l'ha fatto, avrebbe probabilmente riscosso gli applausi della platea. Su un tema che ha sempre diviso la sinistra dai radicali. Il ripensamento culturale, sulle pene e soprattutto sull'uso politico dell'arma giudiziaria, nel Pd ogni giorno fa un passo avanti. Ieri, al Lingotto, erano pronti a dire a Lotti: «Luca non mollare». Avevano già preparato il motto: «Viva la civiltà, abbasso la barbarie giudiziaria». E invece, niente. Il ministro finito nella bufera Consip aveva ieri da celebrare il battesimo della figlia. E dunque, non è potuto ancora assurgere, al Lingotto, a star dell'accanimento giudiziario. Però c'è Padoan, il ministro convinto che Marroni, numero uno Consip, debba restare al suo posto.

BECCARIA
È la giornata del garantismo Pd in scena nella kermesse renziana. Fuori dal Lingotto, ma proprio qui dietro, al mercato di via Nizza, c'è un gazebo M5S. Passano lì davanti due militanti renziani e la conversazione con i grillini si svolge cosi: «Siete diventati ormai dei nemici dei pm esattamente come il Berlusconi», dicono i M5S. Risposta: «Macché! Avete mai sentito parlare di un certo Cesare Beccaria?». E vanno via questi due signori di mezza età con tessera Pd in tasca.

Intanto alla kermesse furoreggia la proposta Graziano, che è pronta a diventare uno degli asset del Pd versione Matteo. Stefano Graziano, ex presidente dei dem campani, costretto a lasciare l'incarico a causa di una inchiesta di camorra che lo ha riguardato e da cui è uscito pulitissimo, la riassume così: «L'avviso di garanzia non può più essere il primo ingresso del malcapitato nel tritacarne politico-giudiziario, ma deve restare una cosa privata. Non divulgabile come un marchio d'infamia». Da Ermini (responsabile giustizia del Pd) e Verini (il veltroniano presente al Lingotto e specializzato in queste materie) e a tutti gli altri, il lodo Graziano viene preso come base della svolta garantista del Pd.

GARANTISMO RADICALE
Ma ecco sul palco il filosofo Biagio De Giovanni. Migliorista doc da oltre mezzo secolo. Iscritto al Pd dopo la sconfitta referendaria. Renzi nel retropalco lo guarda e approva, mentre il filosofo parla in mezzo ad applausi continui e ed ovazioni della platea. «C'è uno squilibrio tra politica e giustizia - avverte il filosofo napoletano - che va corretto». Primo battimani. E il secondo: «L'Italia è l'unico Paese occidentale in cui si è verificata questa anomalia tutta nostrana: l'eliminazione per mano giudiziaria di una intera classe politica». Tesi eretica fino a qualche tempo fa. De Giovanni incalza: «No a una repubblica illegale. No alla repubblica giudiziaria. Le continue intrusioni dei magistrati nella vita politica rappresentano una stortura di cui tutti i democratici devono preoccuparsi profondamente». Ovazione.
Poi interviene la Bonino, il garantismo fatta persona, considerando la storia dei Radicali, e se avesse parlato di giustizia la platea sarebbe esplosa in un entusiasmo pari all'odio che i vecchi comunisti rivolgevano a Marco Pannella quando parlava di garanzie. Ma da allora è cambiato tutto. «I rapporti con i segretari del Pd non sono mai stati idilliaci», dice Emma chiaro e tondo, «vi abbiamo rincorsi ovunque, ma alla fine mi sono sentita una questuante molesta e ho smesso». Qualcosa, evidentemente, è cambiato se finalmente sul tema giustizia i radicali stanno avendo in queste ore con il ministro Orlando, un dialogo che Rita Bernardini e anche la Bonino considerano proficuo. Ed è una sorta di rottura di un muro storico. Ma guai a farsi eccessive illusioni.

Tommaso Nugnes, il figlio dell'assessore napoletano della Margherita che si tolse la vita nel 2008 perché sprofondato in una inchiesta giudiziario, da cui post mortem sarebbe risultato innocentissimo, doveva essere qui al Lingotto il piccolo grande testimonial della barbarie inquisitoriale, un po' lo è stato (e il deputato orlandiano Khalid Chaouki polemizza: «Vergognoso tentare di strumentalizzare Nugnes») ma poi si è deciso di non esporlo troppo. Per un fatto umano, naturalmente, che attiene alle sofferenze personali sue e della sua famiglia. Ma forse anche per altre ragioni. Salvatore Margiotta, senatore dem lucano, stritolato da una inchiesta giudiziaria da cui è uscito vivo e pulito dopo grande travaglio, spiega: «Il sentimento della nostra gente sta cambiando a proposito dei magistrati. Non sono più eroi senza macchia e senza paura ma persone che possono sbagliare e talvolta lo fanno. Ma questa nuova consapevolezza, questa maturità culturale, nel pensiero delle persone di sinistra, è un processo non ancora completato».

Lo dice anche Stefano Esposito, a sua volta senatore, a sua volta renziano, mentre il filosofo De Giovanni riscuote i suoi applausi garantisti: «Luciano Violante, che fu alfiere del giustizialismo, è tra i pochi che ha concluso il percorso verso il garantismo. Nel nostro popolo e nella nostra cultura resiste in parte l'atteggiamento per cui, se la magistratura apre un'indagine su qualcuno, scatta il riflesso condizionato: qualcosa di male quello deve aver fatto». Il che spiega forse una cosa: non è mai piena la riabilitazione politica, in casa dem, di chi è infangato da inchieste e poi però risulta estraneo. Vedi il caso Penati.

Ancora Esposito: «Il problema è la cultura tuttora vigente che viene dal Pds occhettiano. Che incocciando a suo tempo Mani Pulite è stata travolta e ha assorbito per debolezza e paura una ideologia giudiziaria che è diventata egemone. Ora si sta cercando di incrinarla, ma che fatica!». Uno dei testi di riferimento del nuovo garantismo dem, che qui al Lingotto è molto consigliato, è un libro americano: Politics by Other Means di Benjamin Ginsberg e Martin Shefter. Vi si sostiene che le elezioni non contano nulla, mentre le procedure giudiziarie e i conseguenti scandali decidono tutto. Consentendo - cosi si legge - di «raggiungere il risultato, cioè di fare fuori l'avversario politico, in tempi più veloci e con costi più bassi di quelli legati alla competizione nelle urne». La convinzione del neo-renzismo è che sia così. Ed è anche per questo che, rispetto a prima, Matteo si sente più fragile.