Le leggi in eccesso e i confini delle toghe

di Francesco Caringella
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Venerdì 12 Maggio 2017, 00:11
Davanti alla frequente denuncia di uno strapotere della giustizia e della «giuridicizzazione» radicale dei rapporti umani, ci chiediamo sempre più spesso se ci sentiamo tranquilli nel mondo del totalitarismo giudiziario. 
Da lettore, da uomo, ma soprattutto da magistrato, rispondo di no. La ragione è chiara: un potere senza limiti è misterioso e pericoloso. Il “public power” ha necessità di di paletti stringenti e precisi, per non sfociare nell’onnipotenza. Per dirla con Pasolini, un potere illimitato è quanto di più anarchico ci sia, perché trova nell’assenza di regole la sua unica regola.

Questo vale anche in campo giudiziario. Il potere illimitato dei giudici significa, per definizione, soggettivismo, incertezza, rischio di abuso, arbitrio potenziale, autoreferenzialità, alea, opinabilità. Non voglio che sia un mio collega a decidere, al posto mio, se desidero vivere o morire, quando posso staccare la spina, se ho il diritto di cambiare sesso o di adottare un figliastro, o, ancora, se mi è possibile diseredare un discendente ingrato o stabilire, prima delle nozze, le condizioni di un eventuale divorzio. 

Sono scelte personali, soggettive, fondamentali. Ognuna di esse esplica l’umanità imperfetta e infungibile dell’individuo. Non è consentito delegarle, in via integrale, all’opinione personale e fallibile di un altro uomo, qual è, prima di ogni altra cosa, un magistrato.

Nei casi spesso citati (legge elettorale, stepchild adoption, testamento biologico), a cui se ne potrebbero aggiungere molti altri (risarcibilità del danno da morte, sussistenza del diritto a non nascere se non sano, diritto di scegliere il sesso e di sposare un omosessuale, validità di una clausola di diseredazione o di un “prenuptial agreement”), la giustizia è chiamata a supplire alle carenze del legislatore. Il deserto normativo fa sì che i magistrati, garanti delle regole del gioco sociale, assumano il ruolo improprio di creatori delle regole mancanti. Si dirà: è curioso che un ordinamento come il nostro, affetto da conclamata bulimia legislativa (duecentomila leggi, a fronte delle 5.000 tedesche), necessiti, così di frequente, della stampella giustiziale. Eppure si sa, per citare Pascal, che chi parla molto dice poco. “L’unica risposta è quella breve”, ci ricorda a sua volta Georges Simenon. Molte norme, ammoniva Tacito, significano nessun vero precetto, molta confusione, assenza di chiarezza.Plurimae leges, corruptissima res publica: “moltissime sono le leggi quando lo Stato è corrotto”.

Se lo Stato è molto corrotto o latitante, la legalità viene meno, le leggi si moltiplicano, perché sono create non più una volta sola per il bene comune ma guardando agli interessi particolari ed egoistici dei singoli. La foresta di prescrizioni, commi e codicilli nasconde spesso lacune profonde, sul piano delle scelte di fondo e dei valori di riferimento. In assenza di una disciplina chiara e oggettiva, il potente di turno si fabbrica la norma personale che più gli conviene, piegando la funzione pubblica al suo privatissimo tornaconto.

La “crisi della legge” – nelle molteplici forme di ipertrofia, vaghezza e farraginosità- crea così l’anomalia di giudice legislatore o co-legislatore, esposto alla tentazione dell’onnipotenza. Ecco, la magistratura ha le sue colpe, ma non può essere l’unico imputato. Se il legislatore evitasse di disciplinare i dettagli inutili della nostra quotidianità e dettasse pochi precetti semplici sui nostri veri problemi, la magistratura potrebbe evitare un’impropria azione di supplenza giudiziaria, alla quale è costretta contro la sua vocazione e, soprattutto, contro i suoi desideri.
 
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