La sfida sui diritti, oggi il Family day

di Lucetta Scaraffia
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Venerdì 29 Gennaio 2016, 23:56
La polarizzazione del conflitto - forse inevitabile in alcuni momenti della vita di una democrazia - non giova alla discussione. E, anzi, può portare ad affermazioni veramente azzardate. Come per esempio quella secondo cui il riconoscimento delle unioni omosessuali costituirebbe un vulnus per la famiglia tradizionale, oppure l’altra che le coppie omosessuali dovrebbero godere di un “diritto al figlio” in nome dell’uguaglianza. La famiglia è altra cosa da un’unione omosessuale, e tale deve rimanere, nel bene e nel male: è il luogo di trasmissione delle generazioni, dove vengono appresi e discussi i ruoli sessuali. Proprio per questo il fatto che venga riconosciuto il diritto al riconoscimento legale da parte di una coppia gay, nell’ambito di una più ampia accettazione culturale dell’omosessualità, non dovrebbe fare paura. Perché non mi pare che tocchi in alcun modo quella che rimane un’istituzione diversa; in crisi, ma pur sempre ossatura portante della società.

Questo riconoscimento può essere, da parte degli omosessuali, lecitamente considerato un diritto. E negarlo equivarrebbe a considerarli cittadini non uguali agli altri. Il nodo all’origine del conflitto infatti è quello dell’uguaglianza, valore che da sempre possiede lo statuto di un diritto cardine nel regime democratico. Ma nelle nostre società è in corso uno slittamento dalla categoria della differenza a quella della ineguaglianza e quindi, con un successivo passaggio, l’equiparazione dell’ineguaglianza direttamente all’ingiustizia. Mentre d’altra parte l’eguaglianza viene confusa con l’equità, che è cosa ben diversa e che è, o dovrebbe essere, la vera base dei diritti.

Le coppie gay hanno quindi buoni motivi di chiedere il riconoscimento giuridico della loro unione, e di un certo numero di diritti relativi. Per esempio del riconoscimento del diritto a ereditare dal proprio compagno/compagna, così evitando che alla morte di uno dei due membri della coppia i beni comuni siano divisi con membri della famiglia del defunto magari lontani e mai visti (naturalmente tutto cambia - e possono nascere spinosi problemi - se a ereditare ci sono dei figli poniamo di un precedente matrimonio).

Ben diversa è la situazione per quanto riguarda la procreazione. Se le coppie omosessuali non vi hanno accesso per via naturale, questo non può certo dirsi un problema di ineguaglianza da sanare con una legge. Non siamo in presenza di alcuna responsabilità collettiva o di una discriminazione omofoba. È qualcosa che dipende semplicemente dalla realtà. E solo l’utopia può opporsi alla realtà, non certo la legge. La concessione dell’adozione aprirebbe le porte, d’altro canto, a una inevitabile nuova forma di schiavitù del corpo femminile: l’utero in affitto. Forma di schiavitù che significa anche sfruttamento da parte di coppie omosessuali benestanti a danno di donne povere di Paesi sottosviluppati. Basta questo rischio più che reale a sconsigliare il “diritto” di adozione: i figli non sono un diritto né un prodotto, e desiderare un figlio non dà alcun diritto ad averlo.

Certo, ci sono anche casi dolorosi di bambini che hanno una mamma e un papà ma che sono stati allevati da una coppia omosessuale e che, alla morte del genitore, rischiano di essere allontanati dal membro superstite di quella che è diventata la sua famiglia. Ma per questi casi c’è la possibilità giuridica della “continuità affettiva”: che può venire percorsa e magari potenziata. Bisogna ricordare infatti che gran parte delle “famiglie arcobaleno” sono composte da bambini che hanno una mamma e un papà, ma che si trovano a vivere con un genitore e il suo compagno dello stesso sesso: certo, casi complicati, ma sempre meno drammatici, dato il cambiamento della cultura collettiva nei confronti dell’omosessualità. Si tratta comunque, in questo caso, di figli di un uomo e una donna, non di bambini comprati e commissionati, magari su internet. Bambini che in futuro potranno sapere di chi sono figli e riconoscersi nella comune umanità. In realtà, accettare la filiazione omosessuale non significa ampliare i diritti e allargare le possibilità di libertà, bensì trasformare antropologicamente le nostre società, obbligandole ad accettare e metabolizzare un cambiamento che non ha alcun rapporto con la realtà della procreazione. Significa dar corpo a un’utopia: e tutte le volte che ciò è avvenuto le conseguenze non sono state certo positive.


 
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