La Giornata della memoria e i limiti del rito istituzionale

di Fabio Nicolucci
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Sabato 27 Gennaio 2018, 00:05
Quando fu istituita nel 2000, la Giornata della Memoria del 27 gennaio era bellissima, giovane e senza rughe. Quest’anno è appena maggiorenne, eppure mostra alcuni acciacchi. Che cosa l’ha invecchiata? Due distinti fattori. La Giornata della Memoria soffre infatti dei problemi tipici di ogni ricorrenza istituzionalizzata, ma anche di problemi specifici. 

Per quanto riguarda i primi, rimandano alla “fatica” di far rivivere un evento eccezionale nella sua drammaticità – e la Shoah è l’“evento di tutti gli eventi” – secondo modalità istituzionali. Cioè programmate. Un dramma storico che ha sollevato e solleva turbini di passioni e di dolore, viene necessariamente compresso dentro una cornice, che è di per sé anestetica. Perché in un periodo temporalmente ridotto concentra un significato che fa fatica ad esserlo. 
E al contempo lo sovraespone in una miriade di iniziative editoriali, educative e politiche, facendone un rituale.
Tanto da sollevare obiezioni sulla sua pregnanza anche nello stesso mondo ebraico, basti pensare al pamphlet di Elena Lowenthal “Contro il Giorno della Memoria”, che provocatoriamente invitava a guardare ai pericoli di una memoria non necessariamente positiva perché indirizzata ai morti, mentre l’ebraismo è cultura della vita. Se però si vuole fare un bilancio, accanto a difetti sulla qualità la Giornata ha mostrato anche grandi pregi, per lo più sulla quantità. Averla istituzionalizzata ha infatti coinvolto un numero di persone prima inedito. Le iniziative sono infatti per legge organizzate «in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado», e il mondo della Scuola ha quasi un milione di insegnanti e personale non docente, poco meno di 10 milioni di studenti che a loro volta hanno in genere due genitori. 
Nel complesso, il bilancio appare dunque in attivo. Molte scuole e i loro alunni hanno anche visitato di persona Auschwitz-Birkenau, vedendo con i propri occhi la reale esistenza di quell’entrata infernale prima solo vista nel film “Schinder’s List”, quando il treno dei deportati arriva nel Campo di sterminio, e perciò inverandola. Un’esperienza fatta con i testimoni sopravvissuti allo sterminio nazista, a cui il regime fascista collaborò attivamente con le leggi razziali, di cui quest’anno ricorre l’80° anniversario. 
Ma ciò era possibile con la memoria diretta, con la testimonianza dei testimoni. Si avvicina però il momento nel quale essi non ci saranno più, e non sarà più possibile ascoltare dal vivo le loro testimonianze, come per esempio quella di Sami Modiano, che vedremo nel commovente film di Walter Veltroni stasera in tv. 
Passare però da una memoria diretta all’attivazione di una memoria indiretta e “secondaria” non è un passaggio né semplice né automatico, come è ben chiaro allo Yad Vashem – l’Ente Nazionale per la Memoria della Shoah, istituito nel 1953 a Gerusalemme – che vi lavora oramai da anni. Ed essendo questo processo già cominciato, qui iniziano i problemi specifici della Giornata della Memoria. 

Questa “seconda” memoria è infatti cosa totalmente diversa da quella diretta. Perché a definirne il perimetro e i caratteri non è più l’identità del Persecutore, bensì l’identità della Vittima. E mentre sul nazismo vi sono pochi dubbi o contese, i problemi sorgono quando a definire la Giornata della Memoria è l’identità della vittima. Perché l’identità ebraica, malgrado il tentativo della Soluzione Finale è per fortuna ancora vitale e pulsante, ed è per questo dinamica. Muta nel tempo e nello spazio del Politico. 

Essa è composta da due polmoni, lo Stato d’Israele e la Diaspora. In ambedue vi è oggi una fortissima tendenza ad isolarsi, a cercare di far da sé, vista anche la propria accresciuta forza relativa, pensando che da fuori possano venire più problemi che opportunità. Che occorre chiudersi e non aprirsi. Questa chiusura identitaria ha però effetti perniciosi sul tipo di memoria secondaria che si sta costruendo. Con il rischio di farla meno larga e condivisa. Oltre che di impoverire la forte carica etica dell’ebraismo, che può dispiegarsi solo in una equilibrata dialettica tra passato e presente. 

Lo si è visto di recente a Milano, quando da un lato vi è stato fastidio in una piccola parte della locale comunità ebraica sulla Giornata della Memoria come è oggi, con il rischio di delegittimarla invece che migliorarla. E dall’altro, forse di conseguenza, il copresidente della comunità ebraica milanese ha ritenuto di fare un chiaro gesto di sostegno ad un candidato alla Regione che aveva dichiarato di voler tutelare «la razza bianca» (l’affermazione di Fontana è stata poi comunque condannata con fermezza e con una nota ufficiale dalla comunità stessa). Che occorra reinventare la Giornata della Memoria è dunque fuori di dubbio. Se si vuole raccogliere però in modo corretto il testimone dalla prima generazione, occorrerà un doppio sforzo. Evitare certo la retorica e il rituale, che spesso prescinde dal presente dei vivi. Ma anche la sua sola attualizzazione nel presente e nella politica di oggi, con il rischio di far torto ai morti. 
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