Ius soli/ Gentiloni chiude il dossier. In fumo l’ultima ossessione a sinistra

di Alessandro Campi
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Giovedì 28 Dicembre 2017, 00:10 - Ultimo aggiornamento: 00:22
Ci sono settori del Pd, del mondo cristiano-progressista e della sinistra-sinistra (se dici sinistra radicale D’Alema e Bersani si offendono) che chiedono al Presidente della Repubblica di non sciogliere anticipatamente le Camere per dare al Senato la possibilità di approvare la legge sullo ius soli. Se non è un’ossessione politica, di quelle che rischiano di produrre abbagli, poco ci manca.

Contro la possibilità d’un blitz parlamentare non s’è schierata solo la destra, considerata per definizione becera, ignorante e populista. E ciò a dimostrazione del fatto che l’intolleranza ideologica travestita da buoni sentimenti in Italia è più radicata delle pulsioni xenofobe e razziste che si imputano con troppo leggerezza agli avversari e a chi ha idee diverse dalle proprie. Persino la Chiesa, di suo saggia e prudente, pur essendo ampiamente favorevole ad un allargamento degli attuali criteri di cittadinanza ha suggerito di evitare forzature in una fase della politica italiana oltremodo confusa e febbricitante. Senza contare da un lato l’orientamento dell’opinione pubblica, in maggioranza contraria a questa legge. E dall’altro la banale evidenza che al Senato non ci sono i numeri necessari a far passare il provvedimento: il che significa che il dietro front del Pd sul tema è stata una presa d’atto realistica. 

Nonostante ciò si insiste nel dire – Costituzione alla mano – che la mancata approvazione di questa legge sarebbe un’offesa al buon senso, al sentimento di umanità e al nostro spirito di civiltà. Si può accettare che vivano in Italia persone che non godono degli stessi diritti concessi agli altri cittadini? Come si fa inoltre a non capire che il vento della storia soffia in direzione di un mondo senza frontiere e verso un modello di società interrazziale e multiculturale? Si afferma infine, più prosaicamente, che questa legge è ciò che serve per garantire maggiore integrazione e dunque maggiore sicurezza. Senza contare, per passare dall’ideale al materiale, che allargare le maglie è anche un modo per contrastare il declino demografico del Paese e garantire un futuro previdenziale agli italiani di oggi.

Sono argomenti molto diversi tra di loro e talvolta contradditori. Vogliamo questa legge per ragioni etico-umanitarie, perché crediamo nel principio di eguaglianza, o siamo mossi da un calcolo di convenienza che ci spinge a vedere negli stranieri naturalizzati energie fresche con cui rivitalizzare una nazione stanca? Obbediamo al dovere cristiano dell’accoglienza o siamo divorati dai sensi di colpa storici e dunque ci muove una tardiva volontà riparatrice verso un mondo sottosviluppato? Dando la patente formale di italiani a sette-ottocentomila giovani e ragazzi puntiamo a creare un’integrazione reale, o ci interessa piuttosto non avere problemi di ordine pubblico anche se questo implica continuare a condurre, fra italiani vecchi e nuovi, esistenze individuali e collettive separate?

Al tempo stesso, si parla delle future società multiculturali come se fossero, non solo un destino ineluttabile, ma anche l’anticamera di un’umanità pienamente pacificata e solidale, quando è invece probabile – come si evince da molti segnali – che esse siano la prefigurazione di un mondo sempre più diviso e conflittuale. Davvero si crede che la sparizione dei confini politici segnerà la fine delle differenze culturali e mentali che quei confini in parte simboleggiavano e in parte avevano contribuito a cristallizzare in forma di identità collettive vincolanti? In realtà, ci sarebbero anche buone ragioni – ideali e pratiche – per non essere pregiudizialmente contrari ad una nuova legge sulla cittadinanza, anche se i suoi fautori si fanno un po’ troppo trascinare non solo da un sentimentalismo che sfocia spesso nella demagogia e nel ricatto morale, ma anche da una visione idealizzata e ingannevole della convivenza politica e del futuro del mondo. 

Ci sono tuttavia due ragioni, per così dire generali e di metodo, che rendono dubbiosi sul modo con cui si continua a presentare questa legge. La prima riguarda la connessione, che si tende a negare, tra politiche di integrazione, politiche di accoglienza e politiche di sicurezza. La legge sullo ius soli, proprio per la particolarità del momento storico in cui stiamo vivendo, con movimenti di popolazione crescenti che si deve trovare il modo di governare politicamente su scala globale, non può essere considerata come una norma a sé, una sorta di sanatoria obbligata nei confronti di persone che rischiano altrimenti di restare prive dei più elementari diritti sociali (cosa assolutamente falsa), avulsa rispetto alle scelte che oggi ogni Paese è tenuto a fare in materia d’immigrazione. Scelte che, per essere efficaci, debbono essere organiche, non condizionate da pulsioni emozionali o da situazioni d’emergenza, ma soprattutto in grado di contemperare il dovere umanitario con i limiti fisiologici che incontrano qualunque forma d’accoglienza, il diritto di libera circolazione degli uomini con la difesa delle frontiere e la garanzia di sicurezza collettiva, il diritto d’asilo con il rispetto della legalità.

La seconda riserva ha invece a che fare con la concezione puramente formalistica della cittadinanza che sembra stare dietro la legge sullo ius soli. Come se la cittadinanza fosse un diritto da vedere riconosciuto e non una conquista (peraltro faticosa) e una forma di riconoscimento sociale prima che giuridica. La cittadinanza, prima di essere una condizione legale, è una forma di appartenenza sostanziale. La domanda – intellettualmente e politicamente impegnativa, che si tende a sfuggire – è dunque cosa significa essere italiani oggi. Basta riconoscersi a parole nei valori costituzionali o dare prova di padroneggiare in modo appena sufficiente la lingua italiana? Si può essere una comunità legale minimamente stabile e coesa senza essere anche una comunità in senso storico e culturale?

I fautori della legge ritengono che sia sufficiente un ciclo scolastico per poter acquisire una piena cittadinanza. Ma l’integrazione è una pratica sociale concreta, non un auspicio retorico o uno status giuridico. Si può avere la cittadinanza legale di uno Stato e vivere al suo interno in una condizione di sostanziale alienazione o estraneità. E in cosa si chiede ai ‘nuovi italiani’ di integrarsi? Nel tessuto di una nazione che ogni giorno di più mostra di non aver più considerazione della propria storia e dei simboli del proprio passato? Insomma, si può anche essere favorevoli ad una nuova e più generosa legge sulla cittadinanza. Ma forse prima bisognerebbe intendersi su cosa significhi essere cittadino – cioè membro attivo e sostanziale – di una comunità politica. Esattamente il tipo di discussione che sinora in Italia nessuno ha voluto avviare.

Una postilla finale. La gran parte di coloro che stanno invocando un prolungamento della legislatura, per dare modo anche al Senato di approvare la legge sullo ius soli già votata dalla Camera, sono gli stessi che si sono battuti per il No al referendum costituzionale che, tra le altre cose, avrebbe comportato l’abrogazione del bicameralismo. Senza il palleggio legislativo tra i due rami del Parlamento lo ius soli sarebbe già una normativa in vigore. Quale lezione ne traggono coloro che hanno difeso la nostra democrazia dal pericoloso di un’inesistente svolta autoritaria?

 
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