Senza investimenti/ Mezzogiorno tra austerità e indifferenza, un mix letale

di Gianfranco Viesti
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Giovedì 2 Agosto 2018, 00:15 - Ultimo aggiornamento: 01:06
Le preoccupanti condizioni e prospettive del Mezzogiorno dipendono in parte da una storia lunga, da vicende di ieri e dell’altro ieri. Ma dipendono in misura rilevante anche da vicende recenti, dalle decisioni politiche e di politica economica che si prendono oggi e si prenderanno nell’immediato futuro. Delle prime si parla tanto; delle seconde pochissimo. E invece su queste ultime è bene concentrare l’attenzione e la discussione; anche sulla base di alcuni degli elementi di analisi presentati ieri dalla Svimez, è possibile rendersene conto, sollevando interrogativi di grande attualità.

L’Italia ha drasticamente ridotto i suoi investimenti pubblici (dal 3% al 2% del Pil), con la crisi; tale riduzione permane. Nella passata legislatura gli spazi per azioni di finanza pubblica sono stati orientati più ai consumi che agli investimenti: il principale provvedimento sono stati gli 80 euro, che valgono circa 9 miliardi all’anno; e che, incidentalmente, sono andati a vantaggio più del Nord che del Sud. Le previsioni disponibili confermano questa tendenza: un vero e proprio nuovo “regime di politica economica” con bassi investimenti. 

Si tratta di una scelta pericolosa per le prospettive di lungo termine dell’intero Paese, che non ammoderna le sue reti e le sue città. Ma si tratta di una scelta particolarmente negativa per il Mezzogiorno.
Proprio nel Mezzogiorno, infatti, le esigenze di potenziamento di infrastrutture materiali e immateriali sono assai acute; e l’impatto di una stagione di nuovi investimenti pubblici potrebbero essere particolarmente forte. Sia per l’effetto immediato (con un alto “moltiplicatore” sull’economia e un significativo traino di domanda anche nel Centro-Nord), sia per aumentare la competitività delle imprese e dei territori, creando così nuovo lavoro. 

C’è da recuperare gap cresciuti negli ultimi anni; l’Italia ha realizzato un’opera molto importante, e di grande rilevanza, com’è l’alta velocità; ma essa tocca solo marginalmente il Sud: nei primi 15 anni di questo secolo le Ferrovie hanno investito 44 miliardi al Nord e 14 al Sud (110 contro meno di 50 espressi pro-capite). La Svimez calcola che se nel 2019 gli investimenti pubblici al Sud fossero sui livelli (non esaltanti) del 2010 la sua crescita raddoppierebbe, rispetto al misero 0,7% previsto. 

E dunque: abbiamo ascoltato interessanti dichiarazioni del nuovo vertice delle Ferrovie sull’importanza delle reti pendolari, ma ben poco sulla priorità delle opere nel Mezzogiorno; abbiamo ascoltato l’intenzione di autorevoli Ministri di varare un programma di rilancio degli investimenti pubblici, ma come conciliarlo – date le persistenti difficoltà di finanza pubblica - con i cavalli di battaglia del nuovo governo: il reddito di cittadinanza e la flat tax (che, incidentalmente andrebbe molto ma molto più a vantaggio del Nord)? Quel che succede al Sud non dipende dalla storia dell’Ottocento o da un destino cinico e baro: ma dalle scelte che oggi si compiono.

L’Italia ha avviato e mantenuto politiche di austerità nella spesa pubblica, su cui molto si discute ed è giusto discutere. Ma un elemento, sottolineato dalla Svimez, viene quasi sempre ignorato: l’austerità è stato molto selettiva territorialmente, a danno del Mezzogiorno. La spesa pubblica corrente, fra il 2008 e il 2017, è scesa del 7% al Sud mentre è rimasta costante nel resto del paese. Questo si è tradotto in meno servizi, per le persone e le imprese. Il sistema universitario del Sud (del Centro-Sud) è stato oggetto di una pesante politica di marginalizzazione e de-finanziamento. Il sistema sanitario costretto all’esclusivo risanamento dei conti, riducendo qualità e quantità dell’offerta, con un aumento del numero di famiglie impoverite dalla spesa sanitaria privata e un forte incremento della mobilità interregionale dei pazienti (che provoca un peggioramento dei conti, con un evidente circolo vizioso). L’offerta di trasporto pubblico locale fra il 2008 e il 2015 è cresciuta del 13% a Milano, dove tocca i 16.200 posti/chilometro, un valore tre volte e mezzo superiore alla media nazionale; ma è scesa del 24% a Roma (a 6820), del 36% a Napoli (a 2400), del 52% a Catania (a 2300). Il 4,7% dei bambini meridionali fra zero e due anni può usufruire di servizi per l’infanzia, contro il 16% (un valore comunque basso) di quelli del Nord.

Tutto ciò non dipende dalla storia o dal caso, ma dalle scelte politiche fatte. Prima fra tutte la circostanza che dal 2001 nessun governo ha ritenuto di stabilire i livelli essenziali delle prestazioni che devono essere garantiti a tutti i cittadini italiani, come previsto dall’articolo 117.2.m della nostra Costituzione; e poi dal lavorio, oscuro ma molto importante, compiuto in questi anni nel ridisegnare i criteri di finanziamento dei servizi quasi sempre a danno delle regioni più deboli. 

Ma, ed eccoci all’oggi, tutto questo può notevolmente peggiorare, e la condizione del Sud aggravarsi. La Regione Veneto incontra il Ministro e richiede vastissime competenze nelle politiche pubbliche, e suggerisce che siano finanziate tenendo conto del gettito fiscale; la Lombardia segue a ruota, ispirata dalla sua mozione del novembre scorso che, sostanzialmente, chiede una spesa pubblica di oltre 10 miliardi maggiore (e altrettanto minore, ovviamente, nelle altre regioni italiane). La politica nazionale accompagna questo processo con un clamoroso silenzio. 

E il governo che farà? Che posizione prenderanno i 5 Stelle – finora anch’essi silenti – di fronte a questa offensiva leghista? Si andrà verso minori divari o si punterà a farli aumentare? Lo sviluppo del Sud dipende, molto ma molto più di quanto si voglia comunemente ammettere, dalle grandi scelte politiche dell’oggi: quali diritti di cittadinanza garantire a tutti gli italiani?
La questione meridionale da tempo è seppellita nell’indifferenza. Un’indifferenza molto comoda: perché affrontarla significa porsi domande di fondo sugli indirizzi e sulle scelte per il paese, e discuterne a fondo, pubblicamente; significa tornare a parlare di politica, nel senso più alto del termine. 
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