Il Quirinale vale più dei malumori dei dissidenti

di Giovanni Sabbatucci
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Domenica 18 Gennaio 2015, 21:36 - Ultimo aggiornamento: 19 Gennaio, 00:11
Secondo la Costituzione italiana, il presidente della Repubblica ha, fra i suoi molti e impegnativi compiti, quello di rappresentare “l’unità nazionale”. Dovrebbe conseguirne automaticamente che un accordo ampio tra le principali forze politiche sulla scelta del capo dello Stato va considerato come una buona premessa, come un requisito auspicabile (anche se certo non necessario) per l’avvio di un nuovo mandato. Perché l’accordo funzioni è però necessario che i contraenti siano soggetti credibili, capaci di muoversi solidalmente: una condizione che spesso è mancata nella storia repubblicana. Al contrario, è accaduto più d’una volta che le elezioni a voto segreto da parte delle camere riunite abbiano offerto a folte pattuglie di franchi tiratori l’occasione per impallinare i candidati ufficiali e per rimettere così in discussione gli equilibri interni ai partiti. Le possibilità che scenari del genere si ripropongano di qui a dieci giorni, quando si comincerà a votare per il successore di Giorgio Napolitano, sono al momento abbastanza elevate.



E non tanto perché il nome unificante non è ancora stato indicato (altre volte candidati autorevoli sono usciti all’ultimo momento), non solo perché due dei tre partiti maggiori (Pd e Forza Italia) sono fortemente divisi al loro interno, ma soprattutto perché le divisioni riguardano, più che una concreta ipotesi di accordo, l’idea stessa di un accordo tra forze politiche schierate su fronti opposti. Quasi che, dopo vent’anni di bipolarismo e un paio di governi di larga coalizione, la pratica delle intese trasversali in materia di scelte istituzionali susciti ancora presso alcuni settori del mondo politico quelle reazioni di rigetto che di solito si riservano ai compromessi bassi e ai patti inconfessabili.



Sulla carta, democratici e forzitalici, ovvero il primo e il terzo partito in termini di rappresentanza, disporrebbero con ampio margine dei numeri necessari a eleggere insieme un presidente a partire dal quarto scrutinio. Con l’aiuto, peraltro non scontato, degli alleati “minori” (alfaniani, popolari e centristi assortiti), i democratici potrebbero addirittura, sempre sulla carta, prescindere da contributi esterni all’area di governo. Mentre la seconda forza politica – il Movimento 5 Stelle – si è finora sottratta a ogni ragionevole ipotesi di accordo, puntando ad accentuare la sua distanza dalla “casta” e a lucrare sulla denuncia degli accordi altrui. Ma sia nel Partito democratico sia in Forza Italia esistono gruppi dissidenti abbastanza numerosi per mettere a rischio ogni intesa.



Gli anti-renziani del Pd non hanno mai apprezzato il patto del Nazareno sulle riforme: affossando una candidatura gradita a Berlusconi – e proponendone magari una alternativa, capace di riaggregare la sinistra – potrebbero far saltare, assieme al patto, anche la leadership del segretario. Dal canto loro, i dissidenti di Forza Italia, da Fitto a Brunetta, avrebbero l’occasione adatta per punire l’asserita subalternità di Berlusconi nei confronti di Renzi e per rilanciare un’identità partitica oggi alquanto sbiadita.



Nell’uno come nell’altro caso, si tratterebbe di operazioni di corto respiro. Il Pd ripiomberebbe in un caos peggiore di quello seguìto alle presidenziali dell’aprile 2013 (quelle dei 101 franchi tiratori) e non avrebbe a disposizione prospettive diverse dall’appiattimento, elettoralmente poco proficuo, sulla linea della sinistra-sinistra o dalla ricerca di un impossibile dialogo con i Cinque stelle. Forza Italia, sciolta dal legame, sia pur precario e a tempo, che ancora unisce Renzi e Berlusconi, finirebbe schiacciata, e forse fagocitata, dalla Lega in versione Salvini.



Insomma, a uscire a pezzi da una defatigante maratona elettorale, tanto più se sfociata in una scelta di basso profilo, sarebbero non solo le istituzioni, ma anche le forze politiche protagoniste della seconda Repubblica, che diventerebbero sempre più oggetto di sfiducia e di derisione popolare.
C’è dunque da sperare che, ove non dovesse soccorrere il senso delle istituzioni, sia l’istinto di conservazione a suggerire ai grandi elettori e ai leader che ne guideranno le scelte comportamenti adeguati alla serietà del momento. Il sistema non può permettersi una replica dell’aprile 2013, senza nemmeno la carta di riserva, da giocare in extremis, di un Napolitano-bis.