Il libro dei sogni/Le promesse insostenibili sulla pelle dei cittadini

di Paolo Balduzzi
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Mercoledì 10 Gennaio 2018, 00:08
A ormai meno di due mesi dal voto, i quattro principali schieramenti che si affronteranno alle prossime lezioni del 4 marzo sembrano essere delineati, così come appaiono delineate le loro principali proposte in tema di spesa e tassazione. Al di là dei contenuti, specifici e diversi, emerge un evidente tratto comune riconducibile, da un lato, all’aumento di spesa pubblica, in particolare di quella rivolta alle fasce di popolazione più deboli, e, dall’altro, alla diminuzione delle entrate: un mix esplosivo, davvero poco credibile, anche alla luce dei vincoli europei al ricorso al deficit di bilancio. 
Si tratta dunque solo di promesse irrealizzabili? E - indipendentemente da questo - l’aumento della spesa è comunque da considerarsi un tabù? La risposta, forse non scontata alla luce di queste premesse, è «no» a entrambe le domande. Innanzitutto, l’aumento di spesa pubblica è certamente figlia della contingenza (siamo in campagna elettorale) ma anche di una ritrovata crescita economica; una crescita comunque sempre debole ma finalmente vicina a valori che portano a guardare il futuro con un certo ottimismo, visto che le ultime stime si attestano poco sotto il 2% per i prossimi anni. Più crescita economica significa maggiori redditi e risorse per i singoli individui ma anche maggiori risorse (fiscali) per lo Stato, che le può dunque trasformare in aumenti di spesa nel rispetto gli equilibri di bilancio.

Contabilmente, quindi, ma entro certi limiti, l’aumento della spesa pubblica non è certo un tabù; e non solo l’aumento della spesa è possibile: in certi casi è anzi anche auspicabile quando essa è volta a diminuire le forti disuguaglianze che ancora caratterizzano il nostro Paese: differenze territoriali, certo, ma anche differenze reddituali tra famiglie, generazioni e generi. Misure come quella del reddito di inclusione, appena approvata dall’attuale maggioranza, o come quelle del reddito di cittadinanza (Movimento 5 Stelle) e del reddito di dignità (Forza Italia) potrebbero avere un loro senso.

Ma si tratta di proposte che non appaiono sostenibili all’interno del bilancio pubblico: il reddito di inclusione, infatti, costa circa due miliardi di euro l’anno, mentre le altre proposte arrivano a quasi 30 miliardi di euro l’anno: si tratta di ordini di grandezza nemmeno paragonabili. E cosa pensare della proposta di eliminare la cosiddetta riforma Fornero delle pensioni? Innanzitutto, si tratta al momento di una proposta difficilmente valutabile, se non vien specificato a quali regole si vuole tornare e a quali soggetti la controriforma dovrebbe applicarsi. Le poche stime realizzate dall’Inps, comunque arbitrarie ma certamente autorevoli, si attestano a oltre 100 miliardi di euro. La proposta sembra inoltre acuire le disuguaglianze invece che ridurle, tornando a favorire le generazioni più anziane rispetto quelle più giovani.

Questi aumenti di spesa non sono poi accompagnati da indicazioni di copertura bensì da proposte di diminuzione delle entrate stesse: un ossimoro possibile solo sulla carta e in campagna elettorale e che deve essere quindi ben chiaro a ogni elettore. Le principali misure, da questo punto di vista, riguardano la cancellazione delle tasse universitarie (Liberi e Uguali), la cancellazione del canone Rai (Partito democratico), l’introduzione della flat rate taxation (Forza Italia e Lega). In attesa di conoscere i dettagli dell’ultima proposta, le prime due sono evidenti specchietti per le allodole, perché volte a eliminare il metodo di finanziamento ma non la causa del costo (la spesa universitaria o la Rai). Ciò significa che le stesse risorse dovranno essere trovate sotto diversa forma (in assenza di dettagli, si ipotizza la fiscalità generale, vale a dire con aumento dell’Irpef o con tagli alla spesa – in ambo i casi dell’ordine di circa due miliardi di euro).

Sono proposte che riducono la disuguaglianza? Limitiamoci alle tasse universitarie: la risposta dipende da come riteniamo siano i benefici che derivano dall’istruzione terziaria: se si ritiene che questi benefici ricadano sull’intera popolazione, allora è giusto che l’università sia finanziata dalla fiscalità generale e quindi, per essere espliciti, anche dalle imposte degli individui più poveri che mai ne usufruiranno; se invece si ritiene che questi ricadano solo sui singoli laureati, che per esempio godranno di maggiore competenze, vendibilità e stipendi sul mondo del lavoro, allora ognuno dovrebbe pagarsela per sé.

Cosa dovrebbero chiedere dunque gli elettori ai partiti in questa campagna elettorale? Innanzitutto, che gli aumenti di spesa siano accompagnati da una precisa proposta su come recuperare le risorse necessarie, ricordandosi che l’obiettivo di deficit può essere negoziato ma solo per pochi miliardi di euro l’anno e solo sulla base di specifiche e fondate ragioni. Parlare genericamente di taglio della spesa improduttiva e degli sprechi significa eludere la domanda: sono parole senza contenuto.

Un ottimo punto di partenza, a giudizio di chi scrive, sta nella revisione degli sconti fiscali legati all’Irpef, un tesoretto da 150 miliardi di euro l’anno che può essere ridotto senza intaccare l’equità dell’imposta personale sul reddito. Secondariamente, che alle parole seguano i fatti: la legislatura si chiude con la notizia del salto del tetto agli stipendi per i lavoratori della Camera, nonché dello stop al taglio dei vitalizi degli ex consiglieri regionali e degli ex parlamentari. Proprio un bel modo paradossale per ridurre gli sprechi e diminuire le disuguaglianze.
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