Giallo-verdi e potere/ Quelle nomine banco di prova dell’età adulta

di Alessandro Campi
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Giovedì 19 Luglio 2018, 00:03
La via più diretta per perdere il potere è gestirlo male: nell’interesse di pochi (dunque abusandone) o, peggio ancora, in modo dilettantesco e improvvido. Ciò significa che vinte le lezioni, formato (faticosamente) il governo, insediati ministri e sottosegretari, grillini e leghisti debbono ora entrare nell’età politicamente adulta e dimostrare, al netto dell’inevitabile propaganda, di aver capito qual è il compito che li aspetta. E quali sono le responsabilità che, in nome di quel popolo che tanto amano evocare, debbono ora assolvere. Partiti di opposizione radicale, abituati per anni a contestare il Palazzo in ogni sua mossa, inclini a dare voce ai cattivi umori dei cittadini come anche alle loro legittime ansie, Lega e M5S, da quel che si è visto in queste prime settimane di vita dell’esecutivo, debbono ancora fare il salto mentale richiesto a chi, avendo conquistato i vertici dello Stato dopo una legittima competizione elettorale, non può più comportarsi come quando li contestava quotidianamente. Non si può stare nelle istituzioni minandone la credibilità o stravolgendone gli equilibri interni.

Da questo punto di vista, l’importante giro di nomine che sta coinvolgendo pezzi importanti dell’apparato pubblico-amministrativo italiano (quelle appena fatte, le altre da fare nelle prossime settimane e mesi) può rappresentare per la coalizione giallo-verde un banco di prova per molti versi decisivo. 
Da un lato, queste nomine sono l’occasione per cercare di mettere gli uomini giusti (ancorché fidati) nei posti di grande responsabilità che in Italia sono per legge una riserva o competenza della politica. Se per anni si è criticato il clientelismo altrui, lamentando altresì la bassa qualità del personale scelto dai vecchi partiti di governo, il minimo che ora si possa fare è perseguire il merito e la competenza (che beninteso non escludono la lealtà ad un partito o a un’area politico-culturale). Queste scelte, se ben fatte, serviranno anche a creare quel sistema di relazioni e collaborazioni istituzionali, quei terminali operativi in settori chiave della vita pubblica, senza i quali si rischia di governare poco e male. 

Denunciare tutto ciò come occupazione del potere, come fanno (sempre, anche in questo caso) le opposizioni, rappresenta solo un’ipocrisia, visto che in passato i vincitori di turno si sono comportati esattamente nello stesso modo. Se è certamente un errore cercare di condizionare, su basi politiche, il funzionamento degli apparati burocratici (la cui autonomia peraltro è solo un mito corporativo) o delle grandi aziende a controllo e partecipazione pubblica, è invece una necessità creare una continuità virtuosa tra la sfera decisionale politica, l’area tecnico-amministrativa e i settori produttivi strategici riconducibili allo Stato.

Ma è un’ipocrisia anche far credere che stavolta la politica e i partiti possano essere messi alla porta o che a decidere siano invece i cittadini (non si capisce bene con quali strumenti). Il problema non è chi nomina, ma cosa fanno i nominati e nell’interesse di chi: dei cittadini, appunto, o esclusivamente dei loro dante causa politici? 
Dall’altro lato, aver discusso e concordato queste nomine con le forze d’opposizione (nel caso della Rai, del Csm, delle Commissioni parlamentari di garanzia) dovrebbe aver fatto capire a grillini e leghisti, si spera una volta per sempre, tre cose fondamentali, che in buona parte potrebbero decidere il futuro della loro esperienza di governo.

La prima (per quanto ricordarlo possa apparire banale) è che esistono procedure e prassi alle quali è fondamentale attenersi. Perseguire l’obiettivo del cambiamento (anche se si tratta di un concetto un tantino fumoso) è un bene, specie in un Paese tendenzialmente statico e sclerotizzato qual è l’Italia. Ma gli italiani non hanno votato M5S e Lega affinché cambiassero, peraltro a colpi di annunci e proclami, le regole che governano la nostra vita civile e costituzionale: semmai perché operando correttamente all’interno di esse facessero finalmente gli interessi, spesso trascurati, dei cittadini. Questo non è un governo costituente, ma un governo cui si chiede di rendere concrete e tangibili le molte promesse che ha fatto, a partire da quella che il merito dei singoli sarebbe stato sempre riconosciuto.

La seconda è che mediare e scendere a compromessi, accentando qualche volta le legittime richieste altrui, rappresenta un ingrediente fondamentale della politica. Non solo quando c’è da spartirsi i posti, come nel caso delle nomine di questi giorni. Ma anche nel lavoro ordinario del parlamento e delle istituzioni, nei rapporti interni con le forze politiche e sociali come nei rapporti esterni con gli altri Stati e governi. L’idea che mostrarsi intransigenti a parole e battere i pugni sul tavolo possa produrre risultati rappresenta un’illusione. Non c’è arma più efficace della capacità di persuasione, specie quando si pensa di avere buoni argomenti da far valere e obiettivi concreti da raggiungere.

La terza è che non si può andare a testa bassa contro chiunque esprima un interesse o un parere diverso dal proprio. Anche chi ama parlare a nome del popolo sa di non poterlo rappresentare tutto. Le società contemporanee sono per definizione complesse e articolate. Se la democrazia ha un senso è perché è la forma politica che riesce a tenere pacificamente insieme gli interessi organizzati più diversi, considerati tutti egualmente legittimi. Sono in molti a pensare che il fallimento politico di Renzi sia dipeso anche dalla sua tendenza a considerare qualunque forma di rappresentanza o mediazione sociale un ostacolo al suo progetto riformatore. Ma un conto è prendersela con i mille corporativismi che frenano l’innovazione e tendono a salvaguardare i privilegi acquisiti nel tempo. Tutt’altro è negare valore al pluralismo sociale e immaginare una società nella quale tra la massa dei cittadini e il vertice politico (peraltro sempre più personalizzato) non ci sia nulla in mezzo, coltivando per di più l’illusione che le due dimensioni (quella dei rappresentanti e dei rappresentati) possano coincidere.

Le nomine politiche del passato (emblematiche su tutte quelle per la Rai, una realtà affatto particolare, dove quasi sempre si sono infranti i buoni propositi dei partiti) sono state tra i fattori che negli anni hanno alimentato il malcontento popolare contro l’establishment al potere, ben sobillato e politicamente sfruttato dalle due forze oggi al governo. Ma ora che le parti si sono drasticamente invertite, e tocca ai moralizzatori dare esempio di buona condotta, riusciranno a farlo, scegliendo col giusto metodo le persone giuste e sapendo che anche su questo verranno prima o poi giudicati dai cittadini? 
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