L'attacco di Barcellona ha cambiato l'agenda politica. Il senso di insicurezza innescato nell'opinione pubblica dalla strage della Rambla, spinge Gentiloni a pigiare il pedale del freno. Non a caso il giorno prima i suoi collaboratori erano corsi a precisare che le parole del premier sullo ius soli erano «datate, scritte qualche tempo fa». Ed erano «un'enunciazione culturale, non l'indicazione per l'agenda politico-parlamentare». Era seguita chiosa: «Se riusciremo ad approvare la legge bene, se non ci riusciremo ce ne faremo una ragione...».
Segnali che portano in una sola direzione: la promessa (fatta dopo il rinvio di luglio) di varare in autunno la cittadinanza per i figli dei migranti nati in Italia, appare destinata a finire su un binario morto. Una scelta condivisa da Matteo Renzi. Il leader dem già all'inizio del mese aveva definito «ridotte le possibilità di approvare lo ius soli». E dopo l'attacco jihadista a Barcellona più di un renziano aveva allargato le braccia: «Tra la gente monta la paura e la diffidenza verso gli immigrati. Questo rende tutto più complicato...». Tanto più che, esattamente come a luglio, mancano i numeri per far passare il provvedimento in Senato: Alternativa popolare di Alfano resta contraria.
QUEI SEGNALI A SINISTRA
Nel discorso riminese di Gentiloni c'è però di più. C'è il tentativo del premier di blindare la maggioranza in vista del voto sul Documento di economia e finanza (Def) e sulla manovra di bilancio. Articolo 1-Mdp di Bersani e D'Alema, che in occasione dello scontro di luglio sui voucher ha smesso di votare la fiducia all'esecutivo, ha già fatto sapere che non voterà né il Def, né la manovra se «non ci sarà discontinuità rispetto alle politiche turbo renziane fatte di mance e mancette elettorali». E se non verranno inserite nella legge di bilancio misure «a favore dell'occupazione giovanile e di contrasto alla povertà».
Ebbene Gentiloni, «per concludere in modo ordinato la legislatura» (vale a dire, senza crisi di governo) ha fatto capire di voler riportare i 16 senatori bersaniani (essenziali per la tenuta dell'esecutivo a palazzo Madama e per il varo del Def) nell'alveo della maggioranza. Per riuscire nell'impresa - nonostante la possibilità di sfruttare il tesoretto di 5 miliardi regalato dall'aumento del Pil superiore alle previsioni - il premier ha promesso che la legge di bilancio «non sarà di spesa facile». Ma verrà composta da «alcune, limitate misure, per accompagnare la crescita». Dunque, nessun bonus o taglio fiscale di stampo elettorale. E sembra che Renzi, almeno per il momento, abbia accettato questo approccio suggerito dal Quirinale e caldeggiato dal ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan che (causa l'alto debito e l'approssimarsi dello stop della Bce al quantitative easing) non ha alcuna voglia di andare di nuovo alla guerra con Bruxelles.
Ma soprattutto, Gentiloni, ha declinato due soli «interventi selettivi». I due pilastri della legge di bilancio. Ed entrambi sono nell'elenco di misure invocate da Bersani & C. Il primo: gli «incentivi permanenti e stabili per l'assunzione dei giovani». Il secondo: il «contrasto alla povertà e alla diseguaglianze». Nessun accenno al taglio fiscale in proporzione ai numero dei figli (il famoso quoziente familiare). Eppure sarebbe stato gradito da Renzi. E sarebbe stato decisamente apprezzato dalla platea ciellina, comunque generosa di applausi per un premier che giudica «affidabile». Ed è pronto al bis se, com'è praticamente certo, dopo le elezioni sarà necessario un altro governo di coalizione.