La protesta nell’urna/ Mezzogiorno dimenticato nel balletto federalista

di Gianfranco Viesti
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Mercoledì 28 Febbraio 2018, 00:11
Stamattina si firma a Roma l’“accordo preliminare” fra il Governo, l’Emilia-Romagna, la Lombardia e il Veneto sulla maggiore autonomia per le tre regioni. Stando al sottosegretario Bressa, si tratta di un testo preliminare che ha per oggetto i principi generali, le metodologie e le materie. Il presidente della Regione Lombardia qualche giorno fa ha anticipato che riguarderà anche il sistema dei finanziamenti “cioè la compartecipazione al gettito di uno o più tributi erariali”, e l’introduzione di “costi standard”. Si tratta di una prima tappa di un percorso che dovrà portare all’approvazione di una legge nazionale da parte del prossimo Parlamento, che si pronuncerà, senza poterlo emendare, su un testo predisposto dal Governo.

E’ una notizia che lascia perplessi. E’ un passo importante perché per la prima volta porta verso l’introduzione nel nostro sistema di una nuova categoria di regioni, a mezza via fra quelle a statuto speciale e le rimanenti, a statuto ordinario. Si tratta dunque di un tema di rilevanza generale, che attiene agli assetti complessivi di governo del Paese: e che per questo motivo meriterebbe una discussione ampia e approfondita, sui principi, sui nuovi assetti di potere e sulle conseguenze che queste decisioni possono portare; molto al di là di una trattativa riservata fra esecutivi nazionali e regionali. 


A partire da una questione politica di fondo: in base a quali valutazioni si ritiene che spostare alcuni poteri dal centro alle regioni possa essere meglio per i cittadini coinvolti? Ma non solo loro: la riorganizzazione di alcuni servizi pubblici e di alcune funzioni può determinare conseguenze per l’intero paese; un’intesa con alcune regioni non interessa solo i loro abitanti, ma tutti i cittadini italiani. Ma su questo, tutto tace.
<HS9>E poi, nessuno può dimenticare che il tema dominante dei referendum che si sono tenuti in Lombardia e in Veneto era quello delle risorse fiscali: l’idea che quelle regioni ne “meritassero” di più; il che automaticamente significa che ve ne sarebbero state meno per tutte le altre. Pare difficile che questa richiesta storica sia stata accantonata; e invece possibile che possa riemergere, esplicitamente, o peggio, implicitamente: nelle pieghe di allegati tecnici e di indicatori. Si parla dell’introduzione di costi standard: cioè dell’idea che i servizi vadano finanziati con riferimento a misurazioni più oggettive. Il principio è condivisibile: dovrebbe portare ad una maggiore equità. Ma la sua applicazione in Italia, negli ultimi anni, è stata estremamente discutibile: quando si passa dai principi all’attuazione concreta, il potere sta nelle mani di chi definisce i numeri, e si sono sovente create sperequazioni maggiori di quelle che si sarebbe voluto correggere. Solo che le conseguenze sono nascoste agli occhi dei cittadini; e la politica si spoglia delle sue responsabilità per trincerarsi dietro misure tecniche. Che non lo sono mai fino in fondo, però.

<HS9>Non sfugge che si firmi a pochi giorni dalle elezioni, fra governi nazionale e regionali di diverso colore politico. Sarebbe stato probabilmente più opportuno lasciare la materia al prossimo Esecutivo e al prossimo Parlamento. Ma il messaggio è chiaro: si dà una rapida risposta alle esigenze della parte più produttiva del paese. 

Il punto è che questo ancor di più stride con la totale assenza, in questa campagna elettorale, di una qualsiasi discussione e di qualsiasi proposta per l’altra parte del paese: per le regioni del Mezzogiorno, così come per le crescenti difficoltà di estese aree delle regioni centrali. E’ passata sotto silenzio la circostanza che il reddito pro-capite dell’Umbria è ormai inferiore a quello dell’Abruzzo; e non perché quest’ultimo sia particolarmente cresciuto, ma perché il primo è molto calato.

Il massimo che si sente dire è che la ripresa delle aree più forti fungerà da locomotiva per le altre: affermazione priva di fondamento, dato che, proprie perché più forti e quindi autosufficienti, non inducono nessun particolare effetto di stimolo sul resto del paese. Dopo una crisi così straordinariamente lunga e profonda, e che non possiamo purtroppo ancora considerare del tutto alle nostre spalle, non vi è il minimo confronto di idee su quale possa essere un percorso di sviluppo che riporti in tutte le regioni del paese lavoro e benessere, servizi pubblici di qualità e sviluppo di impresa; specie laddove ve ne sono di meno. Non per ostacolare chi va più veloce e ha condizioni migliori. Ma per rilanciare una visione nazionale, in cui grande attenzione va prestata anche a chi va piano e ha problemi più acuti.

La firma di stamattina serve perché si vuol mostrare rapidità ed efficienza nel rispondere alle esigenze, giuste o sbagliate, di chi già sta relativamente meglio. Ma non appare alcun interesse a mostrarle nei confronti degli altri: il tema Mezzogiorno è stato letteralmente bandito da qualsiasi discussione pre-elettorale. Mettere la questione meridionale sotto il tappeto la nasconde allo sguardo, ma certo non contribuisce a scioglierla. La politica sta così venendo meno ad un compito essenziale: quello di sollecitare la fiducia di tutti i cittadini, anche di chi ne ha poca, attraverso il confronto di diverse opzioni politiche. E si sta assumendo un rischio che forse potrebbe cominciare a manifestarsi già da domenica sera: l’alzarsi di un vento da Sud, fatto di delusione, di sfiducia, di rabbia. La rabbia di chi sente privato di privato di una ragionevole speranza di futuro perché vive in luoghi di serie inferiore, che non contano, che sono dimenticati.
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