Avviso ai naviganti/ CAMBIAMENTO

Virman Cusenza
di Virman Cusenza
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Sabato 2 Giugno 2018, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 3 Giugno, 10:04
Qualcosa è cambiato, molto altro cambierà. Gli inviti al minimalismo rispetto al governo che è appena nato contengono un errore in agguato. Da una parte la spocchia nei confronti di tutto ciò che non sia gradito alle élites, dall’altra la difficoltà a comprendere perché la foto opportunity del governo ieri al giuramento nei saloni del Quirinale non è, o almeno potrebbe non essere, il solito passaggio di rito.

Intendiamoci, gli italiani con il voto del 4 marzo non hanno firmato una cambiale in bianco. E proprio nell’averlo chiamato il “governo del cambiamento”, i due azionisti della nuova maggioranza parlamentare sembrano coscienti dell’impegno preso, specie per aver corso il rischio di una “rivoluzione interrotta” dopo il naufragio del primo tentativo Conte. Cambiamento è un concetto che investe tanto i cittadini che recepiscono un’azione volta a mutare un ordine insoddisfacente delle cose, quanto coloro che si fanno portatori di quell’azione che punta a trasformare la realtà. E’ in questo confronto che si manifesta il principio di alterazione, quello per cui nessuna delle due parti alla fine del percorso risulta uguale rispetto alla partenza. Come avviene in ogni viaggio, in ogni navigazione che si rispetti. Non ci si allontana solo dal punto geografico da cui si salpa, ma si cambia dentro.

Il primo cambiamento che attende il governo Conte-Di Maio-Salvini è dunque la realizzazione di un programma ambizioso che spazia dal reddito di cittadinanza alla flat tax passando per la riforma della legge Fornero. Ma per tagliare questo traguardo, che rappresenta quasi la somma dei programmi di due-tre governi, sia in termini di risorse sia in termini di trasversalità di ceti sociali interessati, sia di cittadini geograficamente collocati tra Nord e Sud, è necessario compiere un salto di qualità nel metodo e nella visione.

Bisogna cambiare la politica dell’immediatezza: l’approccio social va bene nella fase di elaborazione di un progetto e nella costruzione di una leadership, ma nel momento della realizzazione serve un respiro più profondo. Cambiamento significa salto culturale. Significa che anche Di Maio e Salvini ora che sono al timone del Paese devono cambiare portando con sé l’energia ferina dei trenta-quarant’anni. Finora hanno trovato la loro chimica nel format movimentista ed elettoralistico. Insomma, non possono continuare una campagna elettorale permanente. Nella scelta della squadra di governo c’è un atto di intelligenza che è anche una palese ammissione: sono stati scelti dei tecnici (una bella quota) che testimoniano la necessità di fondare sulla competenza i prossimi atti. Una consapevolezza che va salutata positivamente.

Cambiamento vuol dire liberarsi di certi filoni culturali (chiamiamoli pure con il loro nome, scorie) purtroppo molto diffusi nel nostro Paese e che albergano anche in una bella fetta della nuova compagine: la cultura dei no e l’approccio giustizialista. Significa sintonizzarsi sull’onda popolare ma anche sulle nuove concretissime possibilità che si sono espresse. Ovvero garantire i diritti, assolvendo ai doveri, ma facendo quadrare i conti.
Il cambiamento dei leader riguarda anche il modo di essere ministri. Facciamo un esempio. Il Viminale è il dicastero la cui gestione è la più invisibile per definizione. Da ieri è occupato dal leader più visibile per esternazioni e forza comunicativa. Può essere un bene nel senso della trasparenza rassicurante. Ma il pericolo in agguato è l’irruenza perché certe svolte vanno garantite con l’ovatta nelle stanze decisionali e la gradualità che porta al risultato.

Il cambiamento comporta non avere ansie da prestazione. Prendiamo l’esempio dell’Europa, uno dei banchi di prova cruciali. Non serve dichiarare provinciali guerre parolaie, serve condurre con una determinazione inedita nella storia italiana una strategia di ribaltamento dei cromosomi della costruzione europea. Bisogna avere nitida coscienza che l’Europa senza l’Italia non va da nessuna parte e che solo questa consapevolezza e questo orgoglio possono essere alla base di una vera e propria offensiva mirata esclusivamente a risultati negoziali. Il successo sta non nella sedia vuota o nell’abbandono del tavolo, ma nella presenza e nella perseveranza. In questo c’è da imparare proprio dai competitor tedeschi. Questo è il sentimento di chi ieri ha votato giallo-verde , nonché di una bella fetta di coloro che si riconoscono nel nascente fronte repubblicano.

Cambiamento significa non accontentarsi di un’etichetta Sud per il nuovo ministero: occorre un volante per la sterzata che garantisca il riequilibrio tra le due parti del Paese, come gli elettori del Mezzogiorno hanno urlato il 4 marzo.

Il governo del cambiamento paradossalmente potrebbe infine “aiutare” la sinistra a cambiare se stessa, scrollandosi di dosso la polvere e l’elitarismo che oggi l’hanno mandata all’opposizione. E modernizzarla superando vecchi steccati ideologici e meccanismi di rappresentanza inceppati. 

Il nuovo approccio ha già cambiato il centrodestra come lo conoscevamo, oggi egemonizzato dal movimentismo salviniano: ma ancora manca un collante culturale a quella che altrimenti rischia di essere solo la somma di partiti ormai eterogenei e giustapposti in funzione di un cartello elettorale. 

Da questi cambiamenti si misurerà il successo o l’insuccesso del viaggio che comincia oggi.
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