Luigi e Matteo/ Il rompicapo dei programmi per i dioscuri

di Alessandro Campi
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Giovedì 10 Maggio 2018, 00:00 - Ultimo aggiornamento: 01:18
C’eravamo lasciati, dopo un’ultima giornata di colloqui e incontri tra Mattarella e le forze politiche, con la prospettiva di un esecutivo istituzionale o di tregua che, senza una larga maggioranza parlamentare, avrebbe soltanto indebolito il Quirinale nella sua funzione di arbitro e garante e condotto l’Italia verso un voto anticipato pieno d’incognite. Ci troviamo, allo scoccare della venticinquesima ora, con la concreta possibilità che – dopo il beneplacito di Berlusconi giunto nella serata di ieri – nasca un governo politico tra i nuovi dioscuri: Matteo Salvini e Luigi Di Maio. 

Osservando le loro mosse di queste settimane viene da chiedersi se dietro l’irruenza da capopopolo rimproverata al primo e l’inesperienza da capoclasse un po’ affettato imputata al secondo, non si nascondano anche un pragmatismo tattico e un cinismo tipico dei politici di lungo corso. Questi sessanta giorni di trattative, tra accelerazioni e ritrattazioni, impuntature e ripensamenti, sono stati letti da molti osservatori come un episodio minore dell’eterna commedia politica italiana: molto rumore (e folclore), poco costrutto. Tanto da costringere il Capo dello Stato, esaurita la pazienza e ogni possibile formula di compromesso tra i partiti, a intervenire con una sua proposta ultimativa e un drammatico appello al senso di responsabilità di tutti gli attori in campo.

Ma l’impressione è che i due giovani leader – nonostante i passi falsi, giudicati forse in modo un po’ troppo liquidatorio da chi si ostina a leggere la politica attuale guardando con nostalgia alla Prima Repubblica e a un mondo di padri della patria che non esiste più – abbiano sempre avuto in testa l’esito che sta per determinarsi, anche quando sono parsi sul punto di litigare o separare i loro destini. Avevano solo bisogno di neutralizzare l’ostacolo che più di altri impediva la sottoscrizione del loro patto politico-generazionale e che per entrambi, anche se in modo diverso, era rappresentato da Silvio Berlusconi.

Essersi spinti sino alla richiesta perentoria di elezioni anticipate nel cuore dell’estate, essere arrivati al limite dello sgarbo istituzionale nei confronti del Presidente Mattarella, dà la misura, se non altro, della loro determinazione nello stato di necessità. Il capo di Forza Italia, perso il Pd come possibile sponda o interlocutore, si è alla fine trovato dinnanzi ad un micidiale tenaglia: dissanguarsi nelle urne fra qualche mese, cedendo definitivamente il comando del centrodestra a Salvini, oppure dare il via libera ad un governo del quale non farà parte. Come ha appunto deciso ieri al termine di una giornata convulsa con uno stringato comunicato: non voterà la fiducia, ma non porrà alcun veto all’intesa.

Per Berlusconi è certamente un cedimento, dopo la caparbia resistenza delle ultime settimane, durante le quali ha fatto di tutto per dissuadere il suo alleato leghista dall’abbracciare i grillini. Ma guardiamo con pragmatismo anche l’altra metà del bicchiere. Dopo essere stato trattato da Di Maio come un reprobo, il Cavaliere l’ha costretto a riconoscere che il diavolo non è più tale se la sua benevola astensione serve a conquistare il palazzo del potere. Per un uomo orgoglioso già questa è una piccola vittoria. D’altro canto, il dispiacere di non stare al governo sarà certamente compensato da una maggiore libertà di manovra per Forza Italia, a livello politico e parlamentare: per gli azzurri sganciarsi dalla Lega sarà persino un bene se il rischio era continuare ad appiattirsi sulle posizioni di quest’ultima sino ad esserne lentamente fagocitata. 

Rendendo possibile l’intesa Lega-M5S Berlusconi potrà ora dire, non senza ragione, di aver fatto un piacere al Paese, risparmiandogli una lacerante campagna elettorale e l’ennesimo governo non eletto dai cittadini. E di aver dato una mano, nel segno della responsabilità, anche al Capo dello Stato: quest’ultimo troppo rispettoso della volontà dei cittadini e della lettera costituzionale per desiderare davvero un governo ispirato dal Colle e per di più dalla vita parlamentare assai incerta. Alla sua età, ottenute tutte le garanzie personali e aziendali che gli occorrono e che certamente gli sono già state date, Berlusconi può ben accontentarsi del ruolo pubblico di saggio statista che agisce per l’interesse generale e non solo per gli affari propri.

Resta da capire che governo potrà mai essere quello tra Salvini e Di Maio. Un monstrum politico-parlamentare, che finirà per isolare l’Italia dal concerto internazionale, o l’inizio di un cambiamento profondo della scena politica nazionale che in realtà gli elettori, sul filo del loro profondo malcontento, hanno già certificato e soprattutto fortemente voluto? 

In linea di principio, un simile governo politico, per quanto non privo di incognite, appare alla fine più lineare rispetto a soluzioni istituzionali o tecniche che, oltre a non garantire nulla sul piano dei risultati come l’esperienza recente italiana insegna, avrebbero solo aumentato il risentimento degli elettori verso il Palazzo e dato fiato alla propaganda sulla democrazia conculcata dai poteri forti.

Sul piano concreto, saranno da valutare gli uomini messi in campo nei diversi ministeri, a partire dalla figura terza che guiderà il nuovo esecutivo giallo-verde e il cui nome ancora non si conosce. Ma fondamentali saranno soprattutto i punti del programma, alcuni dei quali particolarmente delicati: dalla politica economica (con l’Italia spaccata elettoralmente in due sarà difficile rendere compatibile il sostegno al mondo produttivo del Nord e gli aiuti al Sud senza lavoro e senza investimenti che ha urlato la sua richiesta di attenzione il 4 marzo) alla politica estera (la smetterà Salvini con le sue esternazioni putiniste, incompatibili con un Paese che non può e non deve perdere il suo ancoraggio euro-atlantico?).

Programma che poi, dettaglio non secondario, bisognerà anche cercare di realizzare, quale che sia: un modo quest’ultimo per passare finalmente dai proclami alle realizzazioni concrete e per mettere alla prova due partiti che sinora sono stati imbattibili soprattutto sul piano della propaganda e delle promesse. L’opposizione, in Parlamento e nelle piazze, è una rendita di posizione che frutta consenso, il governo una responsabilità che può farlo facilmente perdere. Naturalmente, di un simile esperimento potremmo amaramente pentirci, se dovesse andare male per una qualunque ragione, ma almeno nessuno avrebbe più alibi o scuse: né i grillini, né i leghisti, che hanno scelto di governare insieme, tanto meno gli italiani che li hanno generosamente votati. 
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