Oltre il caso 5 Stelle/Non basta solo un clic per chiamarla democrazia

di Alessandro Campi
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Sabato 29 Ottobre 2016, 00:20
Il Movimento 5 Stelle è un non partito che regola la propria vita interna attraverso, va da sé, un non statuto. Nei giorni scorsi i suoi non iscritti sono stati chiamati ad esprimere on line il loro non voto per decidere se modificarlo o meno. Bisognava pronunciarsi, in particolare, su quella parte del nuovo non regolamento che disciplina le espulsioni dei dissidenti rispetto alla volontà sovrana del non leader.
Secondo quanto previsto dall’ordinamento legale italiano, le variazioni di statuto delle associazioni non riconosciute (in questo caso non si tratta di un gioco di parole orwelliano, ma di una dizione tecnica che indica le associazioni prive di personalità giuridica quali sono notoriamente i partiti) per essere valide debbono essere approvate dal 75% almeno degli associati. Ma nonostante gli appelli al voto fatti personalmente da Beppe Grillo hanno partecipato alla consultazione - secondo i dati ufficiali comparsi ieri sul blog di quest’ultimo - 87.213 iscritti sui 135.023 dichiarati ufficialmente (il 64% degli aventi diritto).
Per la legge la votazione, non avendo raggiunto il quorum, non può essere considerata formalmente valida. Secondo Grillo, il fatto che esista comunque una volontà maggioritaria favorevole all’adozione del nuovo non Statuto basta e avanza per considerare quest’ultimo pienamente legittimo.

Da questa vicenda - ironie lessicali a parte - si possono facilmente trarre alcune osservazioni d’un certo interesse politico che riguardano la pratica della democrazia diretta, meno democratica di quanto vorrebbero far credere coloro che la oppongono alle degenerazioni del governo rappresentativo, e la curiosa concezione della legalità che sembra animare Grillo e i suoi adepti. 

La prima questione va al cuore ideologico del progetto politico grillino, la cui novità consisterebbe appunto nell’enfasi posta sulla partecipazione diretta dei cittadini alla vita pubblica e sulla necessità di superare le istituzioni classiche della democrazia parlamentare-rappresentativa, rese obsolete dallo sviluppo delle comunicazioni digitali. Le discussioni-decisioni politiche, da quando è tecnicamente possibile consultare i cittadini attraverso un computer o un telefonino, non possono più essere delegate a rappresentanti del popolo eletti che inevitabilmente tendono a distorcere la volontà di quest’ultimo.
Il potere, nella visione politica grillina, deve tornare interamente al popolo sovrano che non solo ne detiene la titolarità formale, ma deve poterlo esercitare direttamente e senza filtri istituzionali o legali. Non si tratta di un’utopia, come alcuni obiettano. Per fare ciò oggi basta un clic su una tastiera. Come nell’antichità, quando il popolo si riuniva nelle piazze per decidere in autonomia del proprio destino, bastava un’alzata di mano.

Tutto molto bello e molto facile, se non fosse che il mito della democrazia diretta è storicamente una fonte, assai pericolosa, di illusioni e inganni. Si tratta infatti di un modello di organizzazione politica che, per limitarsi ad un solo rilievo critico, è egualitario e giusto solo all’apparenza: postula una volontà universale di partecipazione alla vita pubblica che invece, soprattutto nelle società composte da milioni di persone, riguarda sempre e solo una minoranza. Da un lato si fa appello, nel nome della democrazia diretta, all’impegno personale dei singoli, dall’altro si scopre che il potere di prendere decisioni riguarda inevitabilmente solo chi ha tempo e voglia per partecipare alla vita politica. Ci si richiama alla volontà del popolo, ma poi a contare è solo una minoranza di attivisti. Grillo, che nelle sue esternazioni almeno è sincero, proprio ieri ha chiarito bene questo punto: «Per noi chi partecipa e si attiva conta e ha il diritto di prendere le decisioni». Ma nelle società autenticamente liberali c’è anche il diritto, da parte dei cittadini, di non attivarsi e di non partecipare. La democrazia esercitata direttamente dal popolo o comporta un obbligo di partecipazione (ma allora sconfina nella mobilitazione totalitaria) oppure si risolve inevitabilmente nell’attivismo di pochi che si arrogano il diritto di parlare e decidere a nomi di tutti (ma così si scade in una forma di oligarchia travestita da unanimismo).

Questo equivoco o contraddizione si vede chiaro ormai da tempo nella vita del M5S: ha milioni di elettori, si appella continuamente al cittadino-sovrano, considera i propri parlamentari e rappresentanti come intercambiabili (“uno vale uno”), ma a contare al suo interno - decidendo candidature e carriere politiche (e forse un giorno incarichi di governo) - sono solo poche migliaia (talvolta centinaia) di attivisti, sui quali peraltro si allunga l’ombra di un capo politico che sembra avere l’ultima parola su ogni questione politicamente decisiva. Forse la mancata partecipazione in massa degli iscritti al voto sullo statuto dipende anche da una certa stanchezza per la crescente divaricazione tra una retorica che enfatizza l’eguaglianza assoluta dei membri della comunità e una pratica che prevede la divisione rigidamente gerarchica degli incarichi e delle competenze. Probabilmente si sta capendo che cliccare su un dispositivo elettronico non vuol dire partecipare da protagonisti alla vita pubblica (nemmeno a quella del proprio partito) o decidere secondo la propria volontà.
Ma c’è un’altra cosa che politicamente colpisce in questo voto sullo statuto. Non aver raggiunto il quorum, come stabilito dalla legge, viene considerato da Grillo come un problema di “burocrazie, codici e codicilli”, che non può naturalmente fermare il movimento della storia incarnato da un soggetto rivoluzionario quale in fondo si considera il M5S. Grillo lo ha detto anche stavolta chiaro: non è il codice civile che può decidere sulla vita interna di un partito, sono le decisioni prese dai militanti di quest’ultimo a dover fare giurisprudenza. Esiste dunque un diritto oggettivo o sostanziale degli appartenenti alla comunità grillina che va oltre quello formale o codificato in leggi e regolamenti che si applica a tutti gli altri attori politici. Non è la prima volta nella storia che compare sulla scena un movimento-partito che pretende, in ragione della forza dirompente del proprio messaggio ideologico, di porsi al di sopra delle regole comuni, viste come un impedimento o un limite alla propria volontà e forza espansiva. Ma colpisce come, diversamente che nel passato, una simile pretesa oggi non desti alcuno scandalo o biasimo nei commentatori politici.
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