Crediti deteriorati/Sistema sano, per la psicosi c’è l’antidoto

di Marco Fortis
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Mercoledì 20 Gennaio 2016, 23:51 - Ultimo aggiornamento: 21 Gennaio, 00:32
La nuova giornata di passione che ha interessato ieri il nostro settore bancario, con pesanti perdite soprattutto su Banca Mps e Carige, ha trascinato la Borsa italiana al ribasso in una giornata già difficile per i mercati di tutto il mondo. A Davos i grandi dell’economia hanno escluso che ci troviamo di fronte ad un altro 2008, ma in questo clima le Borse hanno vacillato, dal Giappone all’Europa fino a Wall Street.
Sempre ieri, dopo un vertice a palazzo Chigi a cui hanno partecipato il Presidente del Consiglio, il Ministro dell’Economia, il Governatore e il Direttore generale della Banca d’Italia, è stata diramata una comunicazione del Governo che ha inteso rassicurare sulla stabilità complessiva del nostro sistema bancario e su un percorso di misure, già iniziato con la riforma delle banche popolari, che punta a favorire le aggregazioni bancarie e a gestire in modo più efficiente i crediti deteriorati. Ma quale è la reale situazione delle banche italiane? Posto che è evidente che in questi giorni sono in atto fenomeni speculativi di rilievo, per rispondere è importante capire anche a quali segnali e indici guarda la speculazione per cavalcare alcuni fattori a proprio vantaggio.

 

Occorre sottolineare anzitutto che molti degli indicatori più in voga per misurare la solidità delle banche e a cui guarda la stessa speculazione, inclusi quelli utilizzati dalla vigilanza unica europea, sono parziali e inadeguati.

E tendono purtroppo a sovrastimare le criticità delle nostre banche e per converso a sottostimare quelle di altri Paesi. Ad esempio, sono indici largamente incompleti in quanto, mentre focalizzano la loro attenzione al credito erogato a famiglie e imprese, trascurano completamente gli enormi rischi delle attività in derivati (di cui non si conosce nemmeno l’esatto ammontare). Inoltre, con riferimento alla intermediazione finanziaria che assume valori sempre più rilevanti (in larga misura verso Paesi emergenti oggi in difficoltà), non vengono in alcun modo evidenziati i rischi di controparte. Conseguentemente, attraverso simili indicatori incompleti, si pensa erroneamente di conoscere tutto sulle banche sottoposte alla vigilanza europea mentre non vengono assolutamente “catturati” aspetti operativi estremamente critici, tipici di sistemi bancari diversi da quello italiano.

In più, non c’è bisogno di essere italiani per pensar male e chiedersi se la griglia di parametri che è stata strutturata per effettuare i cosiddetti stress test sulle banche europee sia realmente la migliore possibile o invece la più comoda cucita addosso alle banche del Nord Europa per nascondere le loro problematiche. Mentre al contrario gli ultimi stress test hanno sottoposto la generalità delle banche italiane a sforzi eccezionali di aggiustamento finanziario applicando, come autentiche camicie di forza, parametri solo in parte giustificati dal cattivo andamento di pochi istituti che meritavano di essere sanzionati.

Si aggiunga, come ben sottolineato dall’editoriale di ieri del Messaggero firmato da Osvaldo De Paolini, che l’Europa ha permesso a un gran numero di Paesi di salvare comodamente le proprie banche uscite malconce dalla grande crisi immobiliare e finanziaria con il bail-out (cioè a spese dei contribuenti) lasciando alla sola Italia, tra i grandi Paesi, l’onere di farlo ora, se del caso, con la nuova regola del bail-in (coinvolgendo obbligazionisti e depositanti oltre i 100mila euro nell’eventuale fallimento di una banca).

Ciò premesso, gli attacchi speculativi di questi giorni ad alcune banche italiane, nel quadro di un più vasto momento di difficoltà delle Borse di tutto il mondo provocato dal rallentamento economico dell’Asia e dal crollo del petrolio, hanno portato all’attenzione dell’opinione pubblica il problema dei cosiddetti crediti “cattivi”. Si tratta dell’ammontare delle sofferenze e degli incagli che le banche registrano nei prestiti verso le famiglie e le imprese: in parole povere soldi difficili da avere indietro per l’insorgenza di problematiche condizioni dei debitori. Il focus si è incentrato in particolare sulle sofferenze, ossia i crediti più critici che in Italia assommano ormai a circa 200 miliardi di euro. È chiaro che la cifra in sé colpisce e, oltre a rappresentare la spinta degli attacchi speculativi, ha dato la stura a molteplici interpretazioni, le più catastrofiche delle quali si sono spinte al punto da mettere in dubbio la tenuta dell’intero sistema bancario italiano.

Eppure la vigilanza unica europea ha appena concluso un giro di valutazioni che ha sancito che tutte le principali banche italiane presentano requisiti di capitale pregiato sul totale degli attivi ponderati per il rischio (il cosiddetto Common equity tier 1 ratio) superiori ai minimi richiesti, con la sola eccezione di due banche popolari non quotate, la Popolare di Vicenza e la Veneto Banca. Per queste due, peraltro, sono in vista operazioni di aumento di capitale che dovrebbero “risollevare” i loro parametri e rimetterle in carreggiata. Chi ponesse a confronto i più recenti rapporti di Cet1 delle prime 10 banche italiane (escludendo le due citate popolari venete) con gli analoghi valori dei “big” del credito europei scoprirebbe addirittura che molti di essi, anche consideratissimi, hanno parametri assai inferiori a quelli della maggior parte delle nostre banche.

L’ossessione per il rapporto Cet1, una sindrome che sembra aver colpito anche molti analisti e commentatori delle vicende bancarie di questi giorni, è poi talmente cresciuta col tempo da far passare in secondo piano un altro parametro cruciale per poter valutare meglio la stabilità delle banche, cioè la leva finanziaria, che dà una misura della liquidità. Leva che tanto più è elevata, tanto più espone a rischio gli istituti di credito. Anche gli organi di vigilanza e le agenzie di rating si sono vieppiù concentrati nelle loro analisi sul rapporto Cet1 dando poco valore alla leva. Ma, come ha sottolineato l’Amministratore delegato di Intesa Sanpaolo Carlo Messina nel suo Forum al Messaggero di alcuni giorni fa, è difficile che una banca «fallisca perché non ha capitale; le banche falliscono per carenza di liquidità, come dimostra il caso Lehman». Ecco allora che se si ponessero a confronto i primi dieci istituti italiani con le più grandi banche europee, si vedrebbe che i rapporti di leva della maggior parte delle nostre banche sono di gran lunga più rassicuranti di quelli delle banche di molti altri Paesi, ad esempio della Germania.

Dunque non sta né nel capitale né tantomeno nella leva il problema odierno dei nostri istituti. E torniamo allora diritti alla questione delle sofferenze divampata negli ultimi giorni. I cittadini italiani sono stati certamente impressionati dalle recenti vicende che hanno riguardato 4 banche regionali prima commissariate e poi oggetto del cosiddetto decreto salvabanche. È evidente che in quei casi vi è stata una cattiva gestione, talora anche clientelare. Così come colpiscono le forti perdite di valore delle due popolari venete non quotate. Ma, da qui a dire, o a lasciar credere, con gravi conseguenze anche su un valore di coesione sociale fondamentale come la fiducia, che il problema delle sofferenze nasce in generale da una cattiva gestione del credito da parte della maggioranza delle nostre banche ne passa. La realtà è che l’ammontare delle sofferenze bancarie in Italia è cresciuto non perché i banchieri sono “cattivi” ma perché le banche hanno prestato denaro all’economia produttiva (e non alla speculazione finanziaria), facendo nella maggior parte dei casi correttamente il lavoro a cui sono preposte.

Lo hanno prestato soprattutto a imprese dell’economia reale molte delle quali sono però uscite malconce da sette lunghi anni di recessione. Una situazione eccezionale di cui anche l’Europa e la vigilanza unica europea dovrebbero tenere adeguatamente conto, anziché ostacolare i tentativi italiani di stabilizzazione persino di banche minori.
Sono le sofferenze delle imprese che sono diventate a poco a poco le sofferenze delle banche italiane. Per certi aspetti è una ulteriore prova del fallimento delle politiche di austerità europee. Sotto questo profilo il problema dei crediti deteriorati delle nostre banche non può essere assolutamente trattato alla stessa stregua dei buchi delle banche che negli altri Paesi si erano formati alla fine della scorsa decade per speculazioni finanziarie e immobiliari gigantesche e a seguito della proliferazione di titoli tossici di ogni genere, in particolare derivati.

C’è poi un problema di corretta misurazione del fenomeno dei bad loans. Certamente il loro ammontare assoluto non è da sottovalutare, ma va tenuto conto anche del grado di copertura degli stessi nei bilanci delle banche e delle garanzie reali sottostanti. Una analisi del “Sole 24 Ore” ha evidenziato ieri che le banche italiane non sono “scoperte” sui crediti deteriorati. In particolare se si guarda alle banche quotate a Piazza Affari, il tasso di copertura arriva al 46% e, se si considerano anche le garanzie collaterali rappresentate da beni reali, si arriva a sfiorare l’88%.
In conclusione, la speculazione attacca più facilmente se non c’è una corretta ed adeguata conoscenza dello stato di salute delle banche nei diversi Paesi; e punta la sua attenzione laddove gli indici, a torto o a ragione, evidenziano l’esistenza o la presunta esistenza di problemi.

Posto che, nel caso specifico, dietro i bad loans delle banche italiane c’è un autentico giacimento di garanzie reali (immobili, terreni, fabbriche e impianti) e non di titoli tossici, derivati o roba simile che con ogni probabilità invece alberga altrove, due priorità si impongono. La prima è una più corretta informazione ai mercati, anche da parte della vigilanza unica europea, realizzabile con indicatori più completi che tengano conto delle diverse specificità dell’attivo delle banche sorvegliate. Ciò eviterebbe di creare una psicosi negativa sul sistema del credito europeo e in particolare sul nostro che, salvo limitate eccezioni bene individuate, nel complesso è solido. La seconda è che l’Europa non frapponga continui cavilli e ostacoli ad una valorizzazione corretta dei crediti deteriorati delle banche italiane, che troverà la sua strada naturale primariamente nella aggregazione tra banche (stimolata dalla riforma delle banche popolari già deliberata dal Governo) e in una conseguente più efficiente gestione degli stessi bad loans. Secondariamente, se necessario, nella creazione di bad bank mirate per le banche più piccole che non riescano ad apparentarsi.
 
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