Corsa a Palazzo Chigi/ Ciascun leader sarà costretto a una rinuncia

di Alessandro Campi
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Mercoledì 4 Aprile 2018, 00:18
Altro giro, altra corsa. Il rito delle consultazioni al Quirinale, cominciato oggi, già sembra prevedere un secondo passaggio, essendo questo primo forzatamente interlocutorio e destinato a non concludersi con un incarico formale. Del resto la situazione è oggettivamente complessa, le idee dei partiti sono confuse e spesso contraddittorie, le soluzioni parlamentari tanto facili sulla carta, guardando solo ai numeri, quanto difficili da mettere in pratica, non appena si passa a ragionare di programmi invece che di seggi e future poltrone. 
I nodi della crisi, ciò che potrebbe complicare il lavoro di raccordo del Capo dello Stato, al momento sono soprattutto due: le ambizioni di Luigi Di Maio e le ansie di Berlusconi. Il primo è fermo nel chiedere per sé la guida del futuro esecutivo. Il secondo, che non vuole restare fuori dal gioco del governo, pretende di essere trattato per quello che è: il capo indiscusso di Forza Italia e il leader morale, se non più politico, del centrodestra. L’atteggiamento al momento intransigente dei grillini – «Di Maio premier oppure nessun governo politico» – c’è da pensare che risponda a un’esigenza tattica e negoziale.
Non ci si può mostrare cedevoli sul proprio candidato proprio quando iniziano le trattative ufficiali con gli altri partiti. Forse risponde anche ad una necessità politica obiettiva: intestarsi la guida formale del cambiamento che gran parte dell’elettorato in effetti si aspetta nella convinzione che il treno del successo politico passa una volta sola.
Ma le dinamiche della democrazia parlamentare sono impietose: col 32% si è magari primi come partito, ma si è fatalmente costretti ad intese, accordi e compromessi. E se Di Maio non dovesse dimostrare la capacità aggregante richiesta al capo di un governo di coalizione, il M5S dovrà a quel punto fare una scelta: convergere su un altro nome, da indicare o concordare, pur di far nascere un esecutivo, o prendere la via dell’opposizione parlamentare, remunerativa a breve sul piano elettorale ma alla lunga sfiancante e frustrante. Vale per l’ipotesi, al momento la più accreditata, di una convergenza con il centrodestra ma varrebbe anche nel caso di un’apertura a sinistra, che è la carta di riserva che i grillini si tengono ben stretta nella possibilità che il Pd prima o poi esca dall’arroccamento.

Quanto al Cavaliere si trova in una situazione a sua volta complicata. Sa bene che Salvini non può e non vuole mollarlo. Primo, perché le pugnalate alle spalle del Cavaliere non sono mai state apprezzate dagli elettori del centrodestra (vedi la nomea di traditore che ha affossato tutti i suoi precedenti competitori, da Fini ad Alfano). Secondo, perché senza Forza Italia come alleato la Lega finirebbe per fare da stampella ad un partito che è il doppio più forte. Ma sa anche che la sua figura è d’intralcio ad un accordo formale tra M5S e centrodestra, a meno che non assuma una posizione defilata che però – ecco un’ulteriore complicazione – non si addice al suo carattere e, sul piano politico, non farebbe che accelerare il suo declino.
Ciò detto, Berlusconi non può nemmeno tirare troppo la corda. Non può essere proprio lui a infrangere l’unità del centrodestra, sperando magari di far ricadere la colpa su Salvini. I numeri d’altro canto non gli consentono di fare sponda col Pd, com’era nei suoi desideri prima del voto. Andare ad elezioni anticipate, con la Lega che ha il vento in poppa, sarebbe infine come deporre la testa sul ceppo del boia. Dunque va bene, in questa fase d’inizio delle trattative, fare la voce grossa e chiedere ai grillini quel rispetto che questi ultimi non vogliono concedergli, ma col tempo anch’egli dovrà scegliere: stare al governo alle condizioni dei due partiti in effetti vincitori delle scorse elezioni o chiamarsi fuori dai giochi. Magari con l’obiettivo di dare vita, contro la grande coalizione dei populisti che potrebbe a quel punto nascere autonomamente, ad un nuovo rassemblement dei moderati. Uno scenario certo ardito che però farebbe tornare d’attualità la liason con la sinistra moderata e riformista di Renzi. 

Il problema è che il Paese, viste anche le scadenze economiche e di politica internazionale, ha comunque bisogno di un governo, a meno di non credere alla favoletta che senza politica le società prosperano meglio. Come se ne esce? Se si vuole un governo politico, che almeno in parte rispecchi le scelte elettorali, e si vuole dunque evitare un esecutivo di scopo o del presidente, con pochi punti di programma e che tutte le forze politiche dovrebbero alla fine sostenere, ci vuole una prova di realismo e buon senso. Vale a dire una rinuncia bilanciata delle rispettive ambizioni personali come anche la disponibilità a cedere qualcosa di sostanziale rispetto a ciò che si è detto in campagna elettorale e a ciò che si vorrebbe. Una disponibilità alla rinuncia che vale per tutti: per Salvini (che pare al momento quello più concreto e pragmatico) come per Di Maio e Berlusconi.
Ci sarebbe a quel punto da temere, si dice, la reazione dei rispettivi elettorati nel caso di collaborazioni che dovessero apparire politicamente innaturali. Ma chi vota un partito generalmente vuole che acceda al potere e provi a realizzare, almeno in parte, ciò che ha promesso. L’intransigenza spacciata per purezza etica o coerenza ideale assoluta già è una virtù discutibile nella vita privata. In quella politica, è solo l’alibi dietro cui nascondersi quando non si vogliono responsabilità o si teme di non avere soluzioni reali ai problemi che si è soliti risolvere a chiacchiere.
 
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