Noi abbiamo sempre diffidato degli inasprimenti delle pene che non intimidiscono nessuno, né i criminali in genere né i corrotti in specie. Questo perché il potenziale bottino è enorme e il rischio di esser presi - e condannati - è minimo. E se anche riuscissimo a incarcerare tutti i corrotti , questa fila di caduti sarebbe subito sostituita, come i fucilieri di Wellington, da una seconda linea pronta a prenderne il posto. Ecco perché, più che impaurire gli amministratori infedeli, preferiremmo disarmarli, togliendo loro di mano i micidiali strumenti di cui dispongono: le troppe leggi, contraddittorie e oscure, che conferiscono a questi signori una discrezionalità che sconfina nell’arbitrio, e consente ai disonesti di fare quello che vogliono.
Ma sono prediche inutili. La parola corruzione genera - come la pedofilia e la violenza sessuale – una sorta di incontrollata reazione epidermica che pretende la shakespeariana libbra di carne: e allora, “so let it be”. Rassegniamoci, e così sia.
Dunque, il “Daspo”. Esso prevede, per il corruttore condannato, il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione. Ora, se la sanzione colpisce - come parrebbe - la sola persona fisica, è assolutamente inutile, perché in genere si tratta di un manager che l’Azienda può benissimo sostituire, e riprendere i sui traffici equivoci. Oppure riguarda anche l’Azienda, per la legge sulla responsabilità amministrativa degli enti la famosa 231/ 01. E allora la sproporzione è enorme, e rischia di farla fallire mandando a casa migliaia di dipendenti. Non basta. C’ è un aspetto di strategia investigativa. Il reato di corruzione si consuma nel silenzio e nel segreto, non lascia tracce ( perché nessuno paga le mazzette con bonifici bancari) e non ha testimoni. Gli unici che possono riferire sono i due protagonisti: chi prende e chi dà. Attualmente entrambi hanno interesse a tacere, perché altrimenti finiscono in galera, e questa attitudine sarà ora rafforzata dal timore che ,oltre alla condanna, scatti anche la preclusione contrattuale. E’ esattamente il principio opposto a quello che il raziocinio suggerisce: spezzare cioè il comune interesse all’omertà del corrotto e del corruttore, premiando quest’ultimo se decide di collaborare. Non sarà eticamente pedagogico, ma funziona. Vedo con piacere che questa mia idea, vecchia di quasi trent’anni, è stata riaffermata dall’ex Procuratore di Milano.
E ora l’agente infiltrato. In un primo tempo pare si fosse pensato addirittura all’agente provocatore, cioè a un subdolo individuo che, dopo aver rifilato una mazzetta, si rivela nella sua veste di sbirro e arresta il corrotto in flagranza di reato. Questa bella pensata, oltre a essere ignobile sotto il profilo giuridico e morale, era anche assurda, perché questa “corruzione” sarebbe stata solo simulata e avrebbe costituito un “reato impossibile”: come, per intenderci, vender farina spacciandola per droga. Abbandonata questa via, si ricorre ora all’ “infiltrato”: una figura che in effetti per certi reati funziona. Ma si tratta di reati che coinvolgono parecchi individui, come l’associazione mafiosa o quella terroristica, dove l’infiltrato può confondersi tra i malviventi e smascherarli. Mentre la corruzione, come s’è detto, è tutt’altra cosa: è’ un rapporto tra due persone, sole e circospette. Che farà l’infiltrato? Si proporrà come portaborse di uno dei due? Mah.
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