Il gap nella Ue/ Infrastrutture una priorità, non cancellare gli impegni

di Oscar Giannino
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Venerdì 18 Maggio 2018, 00:01
Il capitolo dedicato alle infrastrutture di trasporto dell’ultima bozza del contratto di governo tra Lega e Cinque Stelle suscita due possibili impressioni. A parte i due drastici passi indietro rispetto a scelte già fatte, che espongono a danni economico-finanziari molto rilevanti, i casi sono due. O il capitolo è scritto da persone che di questi temi non si sono tecnicamente mai occupati. Oppure – molto più probabilmente - è dissimulata ma deliberata volontà di ignorare tutto ciò che di più rilevante si è fatto negli ultimi anni: e in realtà è stato fatto non poco. In entrambi i casi, la lettura lascia abbastanza esterrefatti. 

Premessa necessaria: perché le infrastrutture sono una scelta necessaria in Italia? Perché abbiamo rallentato gli investimenti necessari negli ultimi due decenni, e di più naturalmente nel post 2011, fino al 2016. Perché abbiamo una conformazione orografica che richiede maggiore efficienza e scrupolosa analisi costi/benefici rispetto alle saturazioni d’area e valutazione dei flussi di traffico stradali, ferroviari, aeroportuali e portuali. E perché, per effetto delle cause precedenti, siamo al 21° posto nell’Indice di performance della logistica elaborato dalla World Bank, rispetto al 1° posto della Germania e al 16° della Francia. 

Eppure, come praticamente in tutto il resto del contratto di governo, anche nel capitolo infrastrutture non c’è un solo numero. Ma per cominciare ci sono due retromarce clamorose. In primis lo stop della Tav Torino-Lione, annunciando la volontà di ridiscuterla dalle fondamenta in Europa. E’ da sempre un cavallo di battaglia dei Cinque Stelle. Al fianco dell’ambientalismo più estremo, che ha fatto della battaglia contro i cantieri una palestra prediletta da frange anarco-insurrezionaliste, malgrado il progetto per anni sia stato sottoposto alla verifica e alle modifiche richieste dai sindaci e dalle comunità della Val di Susa. 

Il progetto dopo le modifiche al ribasso è stimato in un costo di in 8,6 miliardi di euro, di cui il 40% a carico della Ue, il 35% spesato dall’Italia e il 25% dalla Francia. Sono già stati spesi 1,5M miliardi, di cui metà a carico della Ue. Abbandonare il progetto significa far perdere il lavoro a 800 lavoratori in Italia, aver buttato quasi 800 milioni sin qui, ed esporsi a 2 miliardi di penale da pagare. Un affarone, lo capirebbe chiunque.

La seconda marcia indietro è su Alitalia. Si vorrebbe sospendere il bando di gara in corso per la sua aggiudicazione, e di la trattativa molto avanzata con Lufthansa, per tornare ad annunciare che al Paese serve un vettore nazionale. Peccato che la compagnia non abbia né finanza né flotta per poter pensare, senza integrarsi un grande gruppo, di poter arrivare da sola ad un minimo di massa critica nel trasporto a lungo raggio, l’unico che consenta margini rilevanti. Il che significa doverci mettere sopra altri miliardi di pubblici, per anni e anni. Se si pensa che alla Germania sono bastate poche settimane per cedere le diverse parti di Air Berlin, che era la seconda compagnia del Paese disastrosamente gestita da Etihad, spicca l’incapacità della politica italiana di comprendere le dinamiche del trasporto aereo e la reiterata folle scelta di addossarne i costi al contribuente.

E veniamo poi al punto di fondo. Il più del capitolo è dedicato alla mobilità sostenibile, a incentivi ai veicoli a propulsione elettrica ma senza indicarne alcun ammontare, al car sharing e al bike sharing, e via continuando. Ma in nessun modo viene citato ciò che il prossimo governo si trova ad ereditare. Non poi una cosa dappoco, visto che “Connettere Italia”, il programma per lo sviluppo di infrastrutture e trasporti fino al 2030 attivato dal Ministro Graziano Delrio, è stato il tentativo ambizioso di una programmazione seria degli interventi su tutti i diversi segmenti del trasporto. Dopo decenni di imbelli Piani della logistica, stiamo parlando di oltre 18.0 miliardi di investimenti, di cui 123,6 già dettagliati, 103 indicati con copertura per la realizzazione dei progetti al 77% e un fabbisogno residuo di 30,8 miliardi. Al top degli investimenti quelli dedicati alle Ferrovie, che superano da soli i 90 miliardi. Seguono strade e autostrade con circa 80 miliardi, città metropolitane con circa 20 miliardi, aeroporti con 3,6 miliardi e porti con 2,4 miliardi. E sul totale complessivo ben 36 miliardi per recuperare il gap accumulato dal Sud rispetto al Nord nei decenni precedenti, a cominciare da 21 miliardi per estendere l’Alta Velocità ferroviaria nel Mezzogiorno, e per potenziare la doppia coppia di porti del Sud: Napoli-Salerno nel Tirreno, e Bari-Taranto sul versante orientale, per intercettare maggiori flussi commerciali verso l’Italia di provenienza asiatica tramite Suez. Al contrario, il contrato di governo annuncia la chiusura dell’Ilva (altra maxi penale da pagare ad Arcerlor-Mittal che se l’è aggiudicata un anno fa), il che darebbe un’altra mazzata al porto di Taranto.

Di tutto questo, nel contratto di governo non si fa una sola parola. Bisogna intendere che il nuovo governo butta tutto a mare? Si riserva di destinare ad altro le quote di finanziamento già pluriennalmente indicate per il maxi piano Ferrovie-Anas? E di non aggiungere la copertura per quelle mancanti? Ma che Paese è questo, se ognuno rottama tutto ciò che anche di buono è stato fatto da chi l’ha preceduto al governo, in settori poi in cui l’orizzonte e le valutazioni devono essere per forza di cose decennali e pluridecennali? Mistero. Come per ogni altro capitolo di questa singolare intesa di governo: solo chi vivrà, vedrà.
 
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