Addio a Ciampi, il Presidente Traghettatore: restituì all'Italia Patria e orgoglio

Ciampi
di Paolo Cacace
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Sabato 17 Settembre 2016, 08:23 - Ultimo aggiornamento: 15:27

Fino all'ultimo ha mantenuto intatte quelle caratteristiche di sobrietà, di dignità e di rigoroso rispetto per le istituzioni che sono state le stelle polari della sua lunga e operosa vita. Ancorché affaticato dal peso degli anni, Carlo Azeglio Ciampi quasi tutte le mattine era nel suo ufficio di senatore a vita a Palazzo Giustiniani. Finché ha potuto ha scritto libri, articoli. L'ultimo è stato una preziosa testimonianza in occasione del 150°anniversario della nascita di «Nuova Antologia» (nel gennaio scorso) in cui denunciava i «tratti sconvolgenti» del fondamentalismo islamico e incitava con saggezza l'Europa «fin qui inerte spettatrice» a rispondere a questa sfida epocale con «la via maestra della cultura».

 

L'IMPEGNO
Il Presidente emerito leggeva, era costantemente informato, soffriva e (purtroppo raramente) gioiva per la sua Italia e soprattutto per la sua Europa. Non nascondeva le amarezze e le delusioni di una generazione che si era risollevata dall'abisso della guerra ma che oggi doveva fronteggiare una crisi profonda che metteva a rischio le fondamenta della convivenza interna e dell'Unione europea, in un clima sovente avvelenato dal degrado etico. Ma Ciampi non veniva mai meno al suo impegno civile, non faceva mai mancare il suo incoraggiamento ai giovani, per un lungo periodo, anche attraverso le colonne del nostro giornale.
 
Sovente nei nostri colloqui si discettava sui dati peculiari del suo settennato, dal 1999 al 2006. Ed egli, pur trincerandosi dietro il naturale riserbo, non esitava a riconoscersi in una definizione apparsa a fine mandato proprio sulle colonne de Il Messaggero: «Ciampi ovvero il Presidente che ha fatto riscoprire l'Italia agli italiani». In effetti, la «riscoperta» delle radici, dei valori dell'unità nazionale è stata un'impronta indelebile, manifestatasi in una miriade di iniziative che Ciampi ha preso nel corso del settennato, anche attraverso viaggi e contatti con le realtà locali del nostro Paese che egli caparbiamente ha voluto per aiutare gli italiani e conoscere meglio se stessi. Nella convinzione che il recupero della propria identità fosse un passaggio obbligato per poter procedere verso quell'obiettivo di unificazione europea, ideale strenuamente perseguito e difeso nell'arco di un'intera esistenza.

IL FILO ROSSO
Ecco quindi che Patria ed Europa si sono saldate in un «filo rosso» che si muove dal Risorgimento, approda alla Resistenza e alla Costituzione repubblicana, attraverso una rilettura della nostra storia recente, scevra di ogni orpello ideologico. Si cominciò con il restauro e la riapertura al pubblico del Vittoriano, poi con il ripristino della Festa nazionale del 2 giugno, con il ritorno della parata militare, con la «riscoperta» dell'inno di Mameli e del Tricolore, con l'omaggio ai caduti culminato con lo storico incontro a Marzabotto con l'allora presidente tedesco Rau, con cui condividerà l'ardito ancorché sfortunato progetto di Costituzione europea.

Qualcuno ha scritto che c'era in Ciampi un «ammiraglio mancato» per via di quella presunta blefarite che gli impedì da ragazzo di iscriversi all'Accademia navale di Livorno. C'è del vero: nel senso che, anche durante la permanenza al Quirinale, Ciampi ha mostrato una particolare predilezione per le uniformi. Beninteso: non per inconfessate nostalgie nazionaliste. Ma perché c'era qualcosa di positivamente militaresco nel suo comportamento, nell'amore per l'ordine. E poi gli anni della gioventù, quando era sottotenente degli autieri in Albania, lo avevano profondamente segnato; il loro ricordo lo aveva aiutato nell'opera di «rilettura» della storia patria.

Come gli anni trascorsi alla Normale di Pisa dove si era laureato in lettere classiche, nel 1941, con il massimo dei voti. Livornese purosangue, si era iscritto a poco più di sedici anni alla prestigiosa scuola pisana. Tra i suoi maestri Aldo Calogero, il grande filosofo cui resterà sempre legato. Al momento dell'inizio della seconda guerra mondiale si trova a Lipsia, grazie ad una borsa di studio. Impara il tedesco e insegna italiano. Ha conosciuto a Livorno una giovane emiliana, sua coetanea, anche lei laureanda in Lettere: Franca Pilla. E' un colpo di fulmine, destinato a durare per tutta la vita.

Da Lipsia, Ciampi è costretto a rientrare in Italia perché è richiamato alle armi. Nella primavera del 1944 attraversa le linee nemiche sulla Maiella lungo il «sentiero della libertà». Ha il primo impatto con la politica, aderisce al Partito d'azione. Sposa Franca e insegna italiano al liceo «Nicolini e Guerrazzi». Ma per pochi mesi. La moglie, figlia di un bancario, lo spinge a tentare un corso alla Banca d'Italia. Lui resiste, preferisce Petrarca e Goethe ai numeri e alle banconote. Poi cede. E' la svolta della sua vita, il primo consiglio decisivo di «Franchina». Non se ne pentirà. Comincia dalla gavetta. Entra nella segreteria livornese della Banca, ma deve far subito un corso per migliorare la sua calligrafia. Da Livorno a Macerata. La famiglia cresce: nascono i due figli, Gabriella e Claudio.

Poi, nel 1960, il grande salto romano con destinazione Palazzo Koch. Comincia il cursus honorum che, nel giro di 19 anni, lo porta alla carica di Governatore, dopo le clamorose dimissioni di Baffi. E' il guardiano della moneta, ma la sua stella polare è sempre l'Europa. Nel 1992, con Amato premier, s'impegna in una drammatica, quanto vana, difesa della lira che costringe Bankitalia e bruciare circa 60mila miliardi di lire.

L'anno successivo, l'addio a Palazzo Koch, Scalfaro convince «il banchiere gentiluomo» ad accettare la sfida di Palazzo Chigi dopo la bufera di Tangentopoli. E' lui il traghettatore dalla Prima ala Seconda Repubblica e verrà definito «il defibrillatore istituzionale. E' un momento difficile, di grande tensione interna. Ci sono gli attentati e «la paura del golpe». Ma sono gli anni di Maastricht e della corsa verso l'euro. Ciampi è in prima fila come premier e poi come ministro dell'Economia del governo Prodi. Sembra una missione impossibile. Invece l'Italia figura tra i Paesi fondatori dell'euromoneta. Sembra il coronamento di una vita, ma il Paese ha ancora bisogno di lui. Nel maggio del '99 viene eletto al Quirinale con una votazione quasi plebiscitaria.

Ciampi comprende subito che - soprattutto dopo Scalfaro - c'è bisogno di un ruolo rigorosamente super partes. Inutile tirarlo per la giacchetta. Ma quando deve parlare, deve denunciare qualche pericolo, lo fa senza timidezze. Dedica al pluralismo nell'informazione il suo primo e unico messaggio alle Camere. Custode tetragono della Costituzione, non esita a rinviare al Parlamento la legge Gasparri e quella sulla giustizia. Non si astiene dall'ammonire le forze politiche sulla necessità di evitare modifiche della Costituzione «a colpi di maggioranza». E' attento a non travalicare le sue prerogative ma non si accontenta di un ruolo notarile.

LE TENSIONI
I rapporti con Berlusconi diventano sempre più difficili e in più di un'occasione (ad esempio, sul ruolo italiano nella guerra in Iraq) si mostra irremovibile. Comincia con il settennato di Ciampi quella che potrebbe definirsi la vigilanza mediatica del Colle sulle istituzioni. Le esternazioni presidenziali non sono un fenomeno contingente, diventano una consuetudine. Sul potere di grazia Ciampi non esita ad appellarsi alla Consulta (che gli darà ragione). L'Unione europea è sempre la sua bussola. Il suo modello è Einaudi anche se la popolarità che egli conquista giorno dopo giorno al Quirinale lo rende uno dei presidenti più amati dagli italiani. Al momento del congedo, nel maggio del 2006, non mancano le pressioni di chi lo vorrebbe sul Colle per un altro settennato. Ma rifiuta spiegando che un mandato di 14 anni sul Colle sarebbe stato contrario «allo spirito repubblicano». Era l'ultima lezione di un «grand commis» dello Stato.

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