Il caos giustizia/ Tra leggi inapplicabili e sentenze creative

di Carlo Nordio
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Martedì 17 Maggio 2016, 00:06
Il ministro per la Famiglia e gli Affari regionali, Enrico Costa, ha ammonito i magistrati contro le tentazioni di una giurisprudenza creativa. Lo ha fatto dopo l’approvazione della legge sulle unioni civili, nella comprensibile preoccupazione che dall’entusiasmo della novità si passi a quello sulla natività, introducendo, a suon di sentenze, una disciplina della stepchild adoption non prevista, almeno per ora, dall’ordinamento.

L’ex presidente dell’associazione magistrati, Luca Palamara, ha replicato che non si può imporre ai giudici una mera funzione burocratica e notarile. Lo scambio di battute, per fortuna, è stato contenuto e quasi conciliante. Speriamo che continui così: sia perché un’altra polemica tra toghe e politica sarebbe disastrosa, sia perché entrambe le parti hanno le loro buone ragioni.
 
I timori del ministro sono fondati, perché negli anni passati abbiamo assistito a una serie di sentenze a dir poco bizzarre. Valendosi del principio del cosiddetto “diritto vivente”, secondo il quale il significato di una norma si evolve a seconda dello zeitgeist, o spirito del tempo, alcuni giudici hanno interpretato alcune leggi sino a stravolgerne il contenuto: lo hanno fatto nel diritto del lavoro e nel diritto penale, per tutelare il cosiddetto soggetto debole, e in quello civile, per eliminare alcune limitazioni imposte dal diritto di famiglia.

Talvolta, dietro la motivazione inedita, pulsava un’ideologia oggi fortunatamente desueta. Ma più spesso incalzava l’esigenza, o almeno il tentativo, di surrogarsi a un legislatore incerto e pasticcione. Non si tratta comunque di un problema nuovo. Duemilaquattrocento anni fa Platone aveva scritto, lungimirante, che è meglio avere una legge stupida e un giudice intelligente, piuttosto del contrario.

In effetti, e qui ha ragione il dottor Palamara, è la stessa funzione del magistrato a lasciargli una certa discrezionalità interpretativa: altrimenti sarebbe uno scrupoloso scrivano, investito di compiti esclusivamente formali. È insomma una necessità derivante dalla caratteristica della norma, che non può prevedere tutti i casi della vita e tutte le variazioni delle condotte. In ogni ordinamento la legge è per definizione, “generale e astratta” proprio perché si limita a enunciare il principio valido per tutti. Il resto, è mansione del giudice.

È vero tuttavia che nel nostro infelicissimo Paese le norme sono spesso oscure fino all’incomprensione, e contraddittorie fino all’inapplicabilità. Nel diritto tributario, ad esempio, neanche il contribuente più onesto può sentirsi immune da verifiche sanzionatorie. Nel diritto edilizio spesso il rispetto di una disposizione a tutela del paesaggio comporta la violazione di un’altra a tutela dell’igiene. E così via.

Ma l’esempio più grave, e anche più attuale, è rappresentato dal reato di abuso di ufficio, del quale si può dire, citando un grande statista, che è un indovinello dentro un enigma avvolto in un mistero. Di conseguenza non c’è sindaco, amministratore o funzionario che, almeno una volta nella vita, non sia stato indagato per questa “fattispecie” dove tutto è contenuto, tranne il buon senso.

Se dunque si vuole ridurre – non potendolo eliminare – il rischio di interpretazioni estrose o creative, il rimedio principale è molto semplice: scrivere le leggi in modo chiaro e distinto, dopo aver accuratamente verificato la loro compatibilità con quelle esistenti. Magari sanzionando severamente il contravventore. Come insegnava Zaleuco, filosofo e legislatore della Locride, che aveva imposto al proponente di una nuova legge di farlo con una corda al collo. Cosicché, in caso di rigetto, fosse subito impiccato.
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