L’ex presidente dell’associazione magistrati, Luca Palamara, ha replicato che non si può imporre ai giudici una mera funzione burocratica e notarile. Lo scambio di battute, per fortuna, è stato contenuto e quasi conciliante. Speriamo che continui così: sia perché un’altra polemica tra toghe e politica sarebbe disastrosa, sia perché entrambe le parti hanno le loro buone ragioni.
I timori del ministro sono fondati, perché negli anni passati abbiamo assistito a una serie di sentenze a dir poco bizzarre. Valendosi del principio del cosiddetto “diritto vivente”, secondo il quale il significato di una norma si evolve a seconda dello zeitgeist, o spirito del tempo, alcuni giudici hanno interpretato alcune leggi sino a stravolgerne il contenuto: lo hanno fatto nel diritto del lavoro e nel diritto penale, per tutelare il cosiddetto soggetto debole, e in quello civile, per eliminare alcune limitazioni imposte dal diritto di famiglia.
Talvolta, dietro la motivazione inedita, pulsava un’ideologia oggi fortunatamente desueta. Ma più spesso incalzava l’esigenza, o almeno il tentativo, di surrogarsi a un legislatore incerto e pasticcione. Non si tratta comunque di un problema nuovo. Duemilaquattrocento anni fa Platone aveva scritto, lungimirante, che è meglio avere una legge stupida e un giudice intelligente, piuttosto del contrario.
In effetti, e qui ha ragione il dottor Palamara, è la stessa funzione del magistrato a lasciargli una certa discrezionalità interpretativa: altrimenti sarebbe uno scrupoloso scrivano, investito di compiti esclusivamente formali. È insomma una necessità derivante dalla caratteristica della norma, che non può prevedere tutti i casi della vita e tutte le variazioni delle condotte. In ogni ordinamento la legge è per definizione, “generale e astratta” proprio perché si limita a enunciare il principio valido per tutti. Il resto, è mansione del giudice.
È vero tuttavia che nel nostro infelicissimo Paese le norme sono spesso oscure fino all’incomprensione, e contraddittorie fino all’inapplicabilità. Nel diritto tributario, ad esempio, neanche il contribuente più onesto può sentirsi immune da verifiche sanzionatorie. Nel diritto edilizio spesso il rispetto di una disposizione a tutela del paesaggio comporta la violazione di un’altra a tutela dell’igiene. E così via.
Ma l’esempio più grave, e anche più attuale, è rappresentato dal reato di abuso di ufficio, del quale si può dire, citando un grande statista, che è un indovinello dentro un enigma avvolto in un mistero. Di conseguenza non c’è sindaco, amministratore o funzionario che, almeno una volta nella vita, non sia stato indagato per questa “fattispecie” dove tutto è contenuto, tranne il buon senso.
Se dunque si vuole ridurre – non potendolo eliminare – il rischio di interpretazioni estrose o creative, il rimedio principale è molto semplice: scrivere le leggi in modo chiaro e distinto, dopo aver accuratamente verificato la loro compatibilità con quelle esistenti. Magari sanzionando severamente il contravventore. Come insegnava Zaleuco, filosofo e legislatore della Locride, che aveva imposto al proponente di una nuova legge di farlo con una corda al collo. Cosicché, in caso di rigetto, fosse subito impiccato.
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