Bipolarismo addio/ Una politica frammentata

di Giovanni Sabbatucci
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Lunedì 1 Giugno 2015, 22:24 - Ultimo aggiornamento: 2 Giugno, 00:07
I risultati delle elezioni che hanno interessato sette regioni su venti non dovrebbero provocare nell’immediato grandi scossoni al livello degli equilibri nazionali (come invece è accaduto in passato anche per test più limitati). Ma proiettano - al di là della conta dei vincitori e degli sconfitti - ombre inquietanti sull’intero sistema politico, sulla sua capacità di rappresentare gli orientamenti del corpo elettorale.

Nonché sulla capacità di tradurre poi quegli orientamenti in chiare opzioni di governo. La bassa affluenza alle urne – favorita in questo caso dall’infelice decisione di piazzare il giorno delle consultazioni nel bel mezzo di un ponte quasi estivo – non è certo una peculiarità italiana. E non incrina, almeno formalmente, la legittimità della rappresentanza. Ma, in un Paese che in età repubblicana si era distinto per l’alta partecipazione al voto, impone alle forze politiche, e soprattutto a quelle “tradizionali”, qualche riflessione supplementare sulla solidità dei loro legami col paese reale. Ovviamente il discorso vale soprattutto per il Pd di Matteo Renzi. Non si può dire che abbia perso, visto che ha mantenuto le sue posizioni su scala nazionale, aggiudicandosi cinque regioni su sette. Ma ha ceduto la Liguria, tradizionale roccaforte rossa, quella che lui stesso considerava strategica e su cui maggiormente si era impegnato. Dunque una battuta d’arresto, la prima in una sequenza ininterrotta di successi cominciata col trionfo nelle primarie del dicembre 2013.



Questa volta, per un classico caso di nemesi, è stato proprio il meccanismo delle primarie a irrigidire e a impacciare le mosse della dirigenza nazionale, costringendola a sostenere fino in fondo candidature per varie ragioni problematiche. La sconfitta di Raffaella Paita in Liguria è figlia dell’iniziativa inusuale e alquanto cinica della minoranza di sinistra del Pd (nessuno poteva ignorare che la candidatura di disturbo di Luca Pastorino avrebbe fatto vincere un uomo di Berlusconi); ma rivela anche una qualche difficoltà del partito nel sentire il polso della base e nello scegliere di conseguenza i propri candidati. Lo prova, in tutt’altro contesto, il flop di Alessandra Moretti in Veneto, regione confermatasi inespugnabile per un partito che pure guarda con interesse al mondo delle piccole e medie imprese. Se il Pd è chiamato a riflettere su una parziale battuta d’arresto, il suo antico antagonista, Silvio Berlusconi, deve prendere atto di un declino rapido quanto irreversibile. Non inganni la vittoria di Giovanni Toti in Liguria, dovuta in gran parte all’apporto della Lega di Salvini. In tutto il centro-nord, il centrodestra vince solo se include i leghisti (che avanzano dappertutto tranne che in Puglia, dove la loro presenza è irrilevante). E quello che vent’anni fa era un partner minore, anche se decisivo, delle coalizioni di centrodestra, ora ne diventa con largo margine la forza trainante: in Toscana, dove si presentava da sola, la Lega supera il 20 per cento, affermandosi come secondo partito dietro il Pd; e ovunque i suoi risultati sopravanzano largamente quelli di Forza Italia. Questo significa che il centrodestra non può riassumere, almeno per il momento, la sua natura bifronte: punto di raccolta dei moderati e al tempo stesso senza nemici a destra. O accetta la leadership, tutt’altro che moderata, di Salvini, o irrimediabilmente si spacca. Come dire che il sistema bipolare della seconda repubblica non esiste più, anche a prescindere dai successi del Movimento 5 stelle. Insieme ai leghisti, i pentastellati sono quelli che possono vantare il risultato migliore. Nonostante una campagna elettorale in cui Grillo e Casaleggio sono rimasti defilati (o forse proprio per questo), nonostante una storia di performance mediocri nelle elezioni locali, il movimento si mantiene ben al di sopra del 20 per cento. Se a breve (è un’ipotesi di scuola) si tenessero le elezioni politiche con l’Italicum, ci sarebbero buone probabilità di assistere a un ballottaggio fra Matteo Renzi (quello che si era proposto come l’unico capace di arginare la marea populista) e un grillino giovane e dalla faccia pulita, Luigi Di Maio o chi per lui. Lo scenario annunciato dai risultati delle regionali è dunque abbastanza inquietante. Un sistema tripolare – o quadripolare se la Lega andasse per conto proprio, o addirittura pentapolare se si affermasse una nuova formazione di sinistra-sinistra – che non esiste in nessuna democrazia occidentale: la Spagna ha gli indignati di sinistra di Podemos, la Francia i populisti di destra di Marine Le Pen, la Germania la sinistra dottrinaria della “Linke” (la Grecia di Syriza fa storia a sé). Noi abbiamo in campo contemporaneamente tutte queste tipologie. E l’attuale seconda forza politica del Paese è un movimento (i 5 Stelle) per fortuna non violento e sicuramente animato dalle migliori intenzioni riformatrici, ma guidato da un gruppo dirigente incline alle più spericolate semplificazioni e culturalmente estraneo, non solo per inesperienza, alle logiche della democrazia rappresentativa. Quel movimento potrà domani evolvere verso forme di opposizione più costruttive (in parte lo sta già facendo). E con esso le altre forze politiche dovranno in qualche modo fare i conti. Ma intanto dobbiamo registrare un restringimento drammatico dell’area della governabilità. Un miglioramento visibile del quadro economico potrebbe in parte asciugare l’acqua in cui allignano i populismi. Il nuovo sistema elettorale potrebbe contribuire (ma non è detto) a una configurazione meno frammentata del quadro politico. Ma intanto il modello di una democrazia dell’alternanza tende a svanire per carenza di soggetti adatti a interpretarlo.