Referendum trivelle, anche astenersi è l’espressione di un «dovere civico»

di Biagio de Giovanni
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Martedì 12 Aprile 2016, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 16:54
No, proprio non credo che il voto al referendum del prossimo 17 aprile sul problema delle c.d. trivelle debba essere considerato una sorta di dovere politico, di “obbligo civico”. Non credo che debba essere considerato la carta di identità di un cittadino, come ha autorevolmente dichiarato Paolo Grossi, il Presidente della Consulta. Non è un caso, mi pare, che l’art. 48 della costituzione, in un titolo dedicato ai “Rapporti politici”, definendo il diritto di voto, lo qualifichi un “dovere civico”, espressione che non viene ripetuta all’art. 75, dove si parla del voto in seguito alla convocazione di un referendum popolare. A parer mio, c’è una ragione che fa comprendere la diversità delle due opzioni formali, ed essa mi pare abbastanza chiara per restare ancora alla lettera del testo costituzionale: in sede di referendum la costituzione prevede la sua validità solo nel caso che esso raggiunga il quorum richiesto, un tratto del tutto specifico del voto referendario, evidentemente inesistente per il voto politico, valido qualunque percentuale di elettori faccia il proprio “dovere civico”. 

Che cosa indica il quorum al referendum? Una cosa assai semplice: che all’astensione si può dare il significato politico di una scelta. Per esser chiaro: se ritengo che il quesito sia formulato in modo equivoco, se penso, a ragione o a torto, che il raggiungimento del quorum sia dannoso per le politiche dell’Italia, e quindi non vado a votare, esercito il mio “dovere civico” proprio non votando, contribuendo al fallimento del referendum stesso. Prioritaria mi pare la questione del quorum, indicativo di una situazione propria della consultazione referendaria. Perché votare se considero poco chiare o sbagliate le alternative proposte? Ancora di più: perché votare se penso che il mancato raggiungimento del quorum impedirà proprio che il risultato sia valido, considerando positivamente la regolamentazione in atto di una certa materia? Non posso influenzare così la scelta che considero giusta? L’astensione non acquista un pieno significato politico? Posso anche sbagliare in questo giudizio, ma l’errore in questo caso fa parte della fisionomia delle mie libere scelte. Insomma, ammettiamo pure che si debba applicare il concetto di “dovere civico” al referendum. Questo dovere lo posso esercitare anche non votando, ovvero contribuendo ad evitare che si raggiunga il quorum; metto in atto passivamente, per dir così, una mia libera valutazione politica.

Ma c’è qualcosa di ancor più profondo, e provo ad esprimerlo così: il referendum ha per premessa che un determinato numero di cittadini (500.000) o di consigli regionali (cinque) metta in movimento la procedura necessaria. Si tratta di una procedura specifica, attiva, che si colloca all’interno di una corrente di opinione, e bene è senza alcun dubbio che la costituzione dia voce a istanze partecipative di questo tipo, le quali interrompono il circuito spesso bloccato della democrazia puramente rappresentativa. Ma io ho bene il diritto di disinteressarmi del quesito proposto. Di essere del tutto indifferente rispetto a esso. Manco a un dovere? O esercito il mio diritto di libertà? La domanda mi pare francamente retorica.
 

Infine voglio aggiungere una riflessione forse un po’ eterodossa e di sicuro più discutibile.
Nel voto politico certamente la situazione è diversa, e ben si comprende la ragione della formula usata dalla costituzione: “dovere civico”. Qui certo conta la carta di identità di un cittadino, ma il tema va visto anche in relazione alla particolare difficoltà che attraversa la democrazia rappresentativa, e perfino il non-voto qui può incominciare ad avere un significato politico. Provo a spiegarmi: se come cittadino interessato alla politica e a contribuire a determinare le politiche dell’Italia, avverto che il mio voto, ormai atomizzato e isolato da tutto, privato di ogni contesto collettivo, di ogni elaborazione di idee, diventa l’isolato esercizio per l’elezione di un parlamento che non è più il vero luogo delle decisioni, l’astensione può incominciare a costituire una corrente di opinione tutt’altro che indifferente alle sorti del paese e alle forme della sua rappresentanza. Diventa una astensione critica, quasi un avvertimento alle classi politiche. Non insisto su un tema delicato e su una tesi cui io stesso avrei molte cose da obiettare, ma ho voluto concludere con questa annotazione per una ragione che mi pare seria: lo stato della democrazia rappresentativa è deplorevole, la politica attraversa un fase di distacco dalla società e si va collocando in una sua posizione di astratta autonomia. Attenzione a ciò che può accadere.

Ora questa osservazione mi permette di tornare con altro spirito sul tema referendario. Ben vengano i referendum (ne sa qualcosa l’Italia pannelliana dei diritti civili, ed è questa l’occasione per inviare un saluto affettuoso e riconoscente a Marco Pannella), stimolano una partecipazione attiva che può far da antidoto alla neutralizzazione di una rappresentanza anodina. Ma la sua validità politica sta proprio nella libertà che lascia, settori di opinione che si attivizzano e settori che possono restar lontani per le ragioni indicate prima. Insomma, in epoca di crisi, ben vengano i referendum, ma ben venga anche la libertà di regolarsi rispetto a essi.
 
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